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EU Prize for Cultural Heritage / Europa Nostra Award 2017

Il Progetto ‘Museo Piranesi’

di Pierluigi Panza

vince l’EU Prize for

Cultural Heritage

/ Europa Nostra Award 2017   




Indocina. Tutti i capitoli PDF Stampa E-mail

INDOCINA. NEI LUOGHI PERDUTI DELL'AMANTE

RADICI PREMESSA

Marguerite Duras è l’ambasciatrice di un’Indocina perduta. E l’Indocina coloniale, che resterà sempre una sirena per il flaneur orientalista decadente europeo e che resterà, sino alla fine, il vero luogo dell’essere e dell’opera di Marguerite Duras; il luogo del suo vissuto, quello che si identifica con l’immagine materna, che è anche la musa di tutta la sua esperienza letteraria. . Splendori velenosi, misteri cinesi consumati all’ombra di tamarindi che, settant’anni di storia quasi tutti di guerra, hanno strappato all’attuale Vietnam che, di suo, cerca di liberarsi dell’ultimo epitelio di storia rimastogli attaccato per librarsi come una di quelle falene che durano un giorno quali sono le tigri del sud-est asiatico. E così, con la patacca-mito coloniale, se ne va anche la sfumatura, il dettaglio, quel miracoloso in cui, per Warburg, , riesiede il fascino della conoscenza dei luoghi. Un fascino del quale la Duras si è fatta ambasciatrice virgiliana accompagnandoci in luoghi reali e del desiderio consentendoci, attraverso la rilettura di alcune sue pagine, di scoprirne anche la trasformazione. Sono i luoghi dell’Indocina coloniale, per i quali la scrittrice sempre nutrì quella profonda nostalgia che attanaglia chi è colpito dal . Una nostalgia che, prima di entrare nel Partito Comunist Francese, la spinse a scrivere anche un libro sull’onore della Francia coloniale, L’empire français. Il Vietnam 330 mila chilometri quadrati, era già nell’Ottocento un territorio di riconoscibili: due centri densamenti abitati e due delta che ne connaturavano il territorio: quello del Fiume Rosso a nord e il Dlta del Mekong a sud. In mezzo un lungo cordone ombelicale, abitato verso il mare, con nel centro Hué, l’antica capitale dell’Annam. Si sono così, da sempre, delineate tre regioni. Il Tonkino, a nord, con capitale Hanoi comprendente il Fiume Rosso e il sistema di medie montagne che scendono sino alla cordigliera annamitica. L’Annam, comprendente la capitale annamitica e le innumerevoli valli che l’attraversano in direzione ovest-est. La Cocincina, con capitale Saigon, comprendente il delta del Mekong e le alture che si saldano a nord con i contrafforti montani. Malgrado questo ambiente naturale, il Vietnam ha vissuto un’organizzazione politico-statale abbastanza unitaria a partire dal 939, quando si liberò dalla dominazione cinese iniziata prima di Cristo. . Questa consentì ai vietnamiti di rivoltarsi più volte, sorretti dai monaci confuciani, contro i francesi. E questo sentimento di non venne meno neppure con la progressiva scomparsa dei monaci e si innestò anche su una cultura che veniva rinnovata proprio dall’incontro con l’Occidente. Per anni, a cavallo tra i due passati secoli, i modelli dell’organizzazione sociale occidentale non vennero solo subiti, ma anche compresi. Lo scoppio della rivoluzione d’Ottobre, però, fece conoscere con la rapidità di un fulmine la marxista, che le giovani generazioni indocinesi abbracciarono con entusiasmo. Iniziò allora uno scontro più dottrinale con i colonialisti, che stavano in quegli stessi anni plasmando il territorio indocinese. . Ed è in questo periodo chiave che la Duras sbarca in Indicina. Così oggi, i suoi romanzi sull’Indocina, da Un barrage contre le Pacifique (1950) a L’amant de la Chine du Nord (1991), costituiscono un documento, una cartina al tornasole per verificare la sottrazione di tracce avvenuta su quei territori, quei luoghi, quelle città dall’inizio del secolo scorso ad oggi. Sono la testimonianza di un vissuto che diventa denuncia verso una sparizione che, in odore di globalizzazione, permea ogni romito luogo dell’Asia cancellandone ogni traccia con demolizioni, sventramenti, sottrazioni, cancellazioni. Per riconsegnarci poi, attraverso il cinema e i cataloghi delle vacanze, un’immagine finto-romantica e oleografica dell’Oriente confezionata ad-hoc per la consumer-society occidentale. Perché oggi, anche in Vietnam, Laos e Cambogia, i nuovi dell’Illuminismo si consumano nella veste aggiornata rispetto a Horkheimer e Adorno che Marc Augé ha definito della surmodernité, che trova un corrispettivo nello spazio urbano e territoriale nello sviluppo dei cosiddetti non-luoghi. Ovvero nella creazione di spazi privi di radici e di interconnessione che qui, in particolare, trovano configurazione negli stereotipi – anche architettonici - della società dei consumi. E così uno shopping-mall sarà destinato a soppiantare il mercato centrale di Saigon e i nuovi grattacieli con shopping-center Thailandia-style a prendere il posto delle vecchie casupole dei pescatori e dei contadini. In una forma di globalizzazione che appare il surrogato – privato di poesia – della colonizzazione. Del resto, l’incapacità di declinare l’economia, la comunicazione e persino l’architettura in forme che salvaguardino la regionalizzazione e la tradizione sembra diventato un Dna dell’Oriente più arrembate che non vuol sentire parlare di mediazioni o di distanza rispetto alla cultura del consumo occidentale. Ecco, allora, definirsi un’Indocina dei , dello sventramento e della sostituzione, dove la sostituzione appaga l’immaginario simbolico del giovane indocinese di aderire alla modernità. Una modernità che, qui, ha il volto che trasmette la televisione e impersona un turista appagato solo all’idea di consumo. Consumo del paesaggio, consumo della cultura canonizzata dalle guide viaggi, consumo, in generale, dell’altro e quindi simbolizzazione dell’altro per arrivare al consumo. E così, una storia compressa tra millenni di Natura soverchiante e una Modernità globalizzata accolta acriticamente pone di fronte al non-luogo più spiazzante che un occidentale si possa trovare davanti: una mangrovia attorciliata a un’antenna parabolica. La decolonizzazione assume così il volto della colonizzazione tecnologica. In mezzo non c’è stata storia, non ci sono tracce. La città non nata è già, qui, un anacronismo. Il processo di urbanizzazione assente proietta nel posturbano. E la memoria delle cose è appesa a un filo che lega quella ancorata a totem tribali a quella artificiale del computer.


ALBERO GENEALOGICO

Un passo indietro serve a capire. La Duras restò in Indocina dalla nascita a 18 anni. Visse, dunque qui la sua giovinezza in un periodo di splendore coloniale. Il padre della scrittrice era un professore di matematica, sposato in seconde nozze alla madre di Marguerite, una istitutrice scolastica. La madre, soggetto profondo di tutta l’opera della Duras, e ancor più dei libri ambientati in Indocina, si chiamava Marie Adeline Augustine Josèphe Legrand ed era nata il 9 aprile 1877 a Fruges, in Francia, da una famiglia di mercanti, presto caduta in disgrazia. Il 10 marzo 1905 Marie Legrand era stata nominata istitutrice provvisoria alla scuola municipale Des jeunes filles di Saigon, dove si era recata sei mesi dopo il primo matrimonio. Anche il padre di Marguerite, Henry Donnadieu, lavorava nel settore scolastico. Era un giovane direttore dell’istruzione pubblica e della École normale di Gia Dinh, un paese di quella che allora era indicata nelle carte geografiche come Cocincina. Henry s’innamorò di Marie Obscur (questo era il nome del primo marito della Legrand) poco tempo dopo il suo arrivo a Saigon. I due erano entrambi vedovi e si sposarono il 20 ottobre 1909. Marguerite, dunque, era la figlia di due giovani vedovi. La Francia aveva sottomesso la regione dell’attuale Vietnam, con il nome di Cocincina, nel 1862, nell’ambito del conflitto scatenato dall’Inghilterra contro la Cina per la guerra dell’oppio. Da allora, la Francia usò il delta del Mekong come un’area di coltivazione del riso; e da quest’area mosse per la conquista dell’attuale Cambogia e del Laos, occupate intorno al 1890, quando venne costituita l’Indocina francese, della quale la Cocincina restava solo una parte. La Francia frustrò le aspettative delle popolazioni vietnamite, cercando solo in una seconda fase di inserire nel meccanismo di colonizzazione ristretti gruppi della borghesia vietnamita e cinese. Ciononostante, già negli anni Venti-Trenta, le campagne del Centro-Nord furono protagoniste di episodi di lotta anti-coloniale, che la successiva invasione giapponese della Seconda Guerra Mondiale avrebbe fatto esplodere. A Gia Dinh, un sobborgo assai classista, spesso alluvionato e ricco di risaie e palme di cocco non lontano da Saigon, il 7 settembre 1910 nacque Pierre, il fratello maggiore di Marguerite, il figlio più amato dalla madre. Un anno dopo, sempre a Gia Dinh, nacque anche l’altro fratello, Paul. Nel 1912 la coppia tornò per un soggiorno in Francia. Mentre Henry si trattenne nella Garonna, Marie ripartì con i due bambini il 6 aprile 1913. Successivamente Henry la raggiunse. E qui, sempre a Gia Dinh, il 4 aprile 1914 alle 4 del mattino nacque Marguerite Germaine Donnadieu, la Duras. La famiglia abitava in una normale casa inizio-secolo messa a disposizione dalle autorità scolastiche. Si tratta di abitazioni ormai quasi completamente cancellate sul territorio indocinese. La madre si spostava in tram per raggiungere la scuola da casa: le prime forme di colonizzazione tendono a urbanizzare luoghi ancora preda della dialettica Natura/Civiltà sul modello delle città occidentali. Marguerite nacque dunque in un periodo di dominio coloniale stabile, tre anni dopo la partenza da Saigon di Nguyen Sinh Cung (poi noto come Ho Chi Minh) per un trentennale esilio di apprendistato rivoluzionario. Ma i problemi non tardarono a sorgere. Sei mesi dopo la sua nascita, la madre fu costretta a tornare in Francia, a Tolosa, per farsi curare dal paludismo, malattia allora assai diffusa. Marguerite restò invece in Vietnam sotto le cure di un domestico vietnamita, come allora usavano i coloni. Poi fu la volta del padre a stare male, e a tornare in Francia, in Ospedale, a Marsiglia.


LE CITTA’ DELLA MORTE PASSAGGIO AD HANOI

Hanoi e Phom Penh non assurgono mai, nelle pagine durassiane, a veri e proprio luoghi letterari, come Saigon. Sono tappe di un passaggio che deve portare nel sud dell’Indocina dove il paesaggio coloniale si sposa con la tradizione, la dissoluzione, la letteratura. Così non ci sono grandi tracce di quando, nel 1917, attraversando da Sud a Nord tutto l’attuale Vietnam, e passando per la vecchia capitale di Huê’ (poi martoriata dalla guerra) la famiglia della Duras si trasferì da Gia Dinh ad Hanoi, dove il padre era stato nominato Directeur de l’enseignement primaire. Un passo avanti in carriera che corrispose, tuttavia, a uno dei periodi più oscuri e tristi della famiglia, segnato dalla malattia del padre, dall’invecchiamento precoce della madre e da una incipiente povertà. Hanoi fu per la prima volta capitale del Vietnam nel 1010, quando l’imperatore Ly Thai To la battezzò Thang Long, ovvero città del drago che vola alto. Fu poi capitale durante il regno dell’ultima dinastia Le, fondata nel 1428 e rovesciata nel 1788 da quella Tay Son. Nel XIX secolo la decisione dell’imperato Gia Long, fondatore della dinastia Nguyen, di governare da Hué, relegò Hanoi un po’ a capitale regionale. Duranet il periodo coloniale, tuttavia, Hanoi divenne capitale dell’Indocina francese dal 1902 al 1953. E dunque, quando la famiglia Donnadieu si recò qui, Hanoi era comunque la rinascente capitale dell’intera Indocina coloniale. Era città, anche di significative presenze monumentali, mai rilevate dalla Duras. Intanto c’era l’orginale pagoda con una Sola Colonna (Chua Mot Cot), oggi ricostruita a fini turistici e, al solito, mai rielvata dalla Duras come tutte le altre pagode. E’ fatat di una struttura in legno costruita su una base di pietra di poco più di un metro, e la cui forma ricorda il fiore del loto, simbolo di purezza. E’ bene però ricordare che furonoproprio i francesi, nel 1954, che priam di andarsene la distrussero. Nemmeno citata è pure la pagado Dien Huu, con il suo incantevoli cortile interno. Lo scarso rilievo che la Duras dà alle preesistenze ci priva anche della descrizione dell’unico esempio di autentica architettura vietnamita esistente, il Tempio della Letteratura, fatto edificare nel 1070 dall’imperatore Ly Thanh Tong che lo dedicò a Confucio. Più volte rimaneggiato, la Duras dovette vederlo poco prima che iniziassero gli imponenti restauri del 1920 nell’ambito del riassetto della capitale dell’Indocina. La Duras non restò molto legata a questa città, stele del Vietnam e anche città della riscossa e città martire! Di Hanoi fa solo un breve cenno in un passaggio di L’amant (1984). Si riferisce a una fotografia scattata , una casa presa in proprietà. Ciò è sufficiente a far capire che abitavano lungo il laghetto di Truc Bach, dalla parte della . Il lago Truc Bach è separato dal più grande lago dell’Ovest da una strada bordata dagli alberi a fiamma. Il lago dell’Ovest, 13 chilometri di perimetro, è il terminale delle leggende mitologie vietnamite popolate di draghi e bufali d’oro. Lungo il perimetro, a inizio secolo, sorgevano sontuosi palazzi in parte distrutti successivamente dalle guerre. Il lago Truc Bach, invece, si chiamava così perché questo era il nome delle sciarpe di seta bianche che le concubine infedeli dei signori feudali Trinh tessevano in questo luogo, in una sorta di harem delle ripudiate. Naturalmente di questa storia non c’era più traccia a inizio secolo, la ricordava solo la toponomastica. Una toponomastica spesso cancellata dalla francesizzazione dei nomi delle vie. Al periodo di Hanoi risalgono anche gli scarni riferimenti della Duras al padre che si trovano sia in Un barrage… che in L’amant, tutti allusivi alla di lui morte. La foto di Hanoi, infatti, è scattata dal padre prima del rimpatrio in Francia per malattia. La famiglia si trovava ad Hanoi negli anni dello splendore coloniale, quando la grande stagione della costruzione classicista della città si era appena compiuta. Intanto le trasformazioni ottocentesche di edifici avevano toccato dei luoghi simbolici della città, dal tempio della Letteratura, ampliato con il padiglione Khue Van nel 1802, alla pagoda Tran Quoc sul lago dell?ovest, ricostruita nel 1842. Quindi, tra il 1884 e il 1914 Hanoi, era stata ricostruita nei suoi edifici simbolo: nel 1886 era stata innalzata la cattedrale neogotica di San Giuseppe; quindi erano sorti i palazzi firmati dal capo del Dipartimento edilizia civile della città, Auguste-Henru Vildieu, come il Palazzo di Giustizia e il Palazzo del Governatore (ora Palazzo Presidenziale) entrambi conclusi nel 1906. Nel 1902, Paul Doumer, futuro presidente della Repubblica, aveva concepito in un enorme palazzo neoclassico (poi distrutto) anche la Grande esposizione di Hanoi, che doveva fare della città una . Il modello era sempre lo stesso: esportare il modello francese e applicarlo all’Indocina. Nei successivi anni Venti e Trenta, grazie anche alla spinta dell’École Française d’Extreme Orient e alla École des Beaux-Arts d’Indochine (con una sezione di architettura), si sviluppò tuttavia anche una sorta di edilizia ibrida, quasi , con contaminazione di stile vietnamita ed europeo, ora in parte cancellata e in parte in pericolo. In quegli anni si diede vita anche ai primi restauri di edifici e al primo piano regolatore coloniale, firmato nel 1924 da Hebrard, che settorializzò la città in quartieri europei ed asiatici, amministrativi e commerciali, residenziali e a verde. A lui si deve il Museo Louis Finot (1925, oggi Museo di Storia), costruito subito dietro il Teatro Municipale. In quegli anni la città era vivace, con gallerie d’arte che esponevano pittura cubista e con il fiorire dell’Art Déco, di cui erano espressione la Banca d’Indocina (oggi Banca di Stato) e il Credito Fondiario di G.Trouvé. . Quello che si è salvato al tempo e alla guerra, tuttavia, è spesso in stato di degrado. Tra queste costruzioni figurano anche l’Hotel Metropole e l’ex teatro dell’Opera, ora della Riunificazione. Quest’ultimo, enensimo, cambio di nome, ci ricorda che la città ha subito, opvviamente, una nuova ricostruzione iniziata alla fine degli anni Settanta, dopo la guerra con il Vietnam del Sud. Trasformazione di cui il Mausoleo di Ho Chi Minh, di fatto iniziato già nel 1973, è il luogo simbolo, costruito com’è con materiali provenienti da tutto il Vietnam e in un eclettismo che cerca di condensare vari linguaggi della cultura indocinese. GLI ORRORI DI PHNOM PENH Se scarse sono le tracce durassiane in Hanoi, analogamente esigue sono quelle lasciate dal 31 dicembre 1920 a Phnom Penh, allora capoluogo dell’Indocina francese. Per la Duras, Phnom Penh sarà sempre e solo sinonimo di morte. Qui la madre aveva trovato lavoro come direttrice della scuola Norodom dal 19 gennaio 1921. I Donnadieu vivevano in una magnifica dimora circondata da un grande parco, con domestici che la scrittrice ricorda in alcuni passi di L’amant. La residenza doveva essere adiacente al Palazzo del re di Cambogia, la sfarzosa residenza di fronte al Mekong costruita sul modello della reggia del re del Siam a Bangkok, con un parco di molti ettari. Ma da qui il 24 aprile del ’21 il padre di Marguerite venne imbarcato d’urgenza per la Francia a causa di una malattia oscura. Alla sua partenza, come ricorda in L’amant la Duras, madre e figli rimasero soli nella sontuosa residenza di Phnom Penh, tra ettari ed ettari di natura. . E lì saranno raggiunti dalla notizia della morte del padre, dopo un mese e mezzo di agonia, il 4 dicembre del ’21. Marguerite aveva allora 7 anni, i fratelli 10 e 11. Come ad Hanoi, anche nell’anno in cui la Duras visse a Phnom Penh la città era in corso di profonda trasformazione. Fino al 1866, Phnom Penh era costituita sostanzialmente solo da una via, come mostra lo schizzo allegato in una lettera all’Ammiraglio de La Grandière, comandante delle truppe della Cocincina. Ma dall’incoronazione di re Sisowat, fratello di Norodom, nel 1906, si era dato vita a imponenti lavori. Si erano drenati i bracci del Mekong e si era reso navigabile il Tonle Sap. Dal 1895 la città si era parzialmente dotata di acqua pompata dal fiume e distribuita attraverso 45 chilometri di tubi. Nel 1901 era stata installata la luce elettrica ed erano state aperte numerose scuole e collegi. La prima scuola francese era stata inaugurata nel 1870; ma nei primi decenni del secolo gli istituti si erano moltiplicati. Inutile sottolineare che non ve n’è quasi più traccia, evitando di ricordare che una scuola superstite è quella che venne usata da khmer-rouge come luogo di detenzione e tortura. Questo istituto, diventato oggi un , è monumento all’incommensurabilità del crimine. Come altre figure del monumento contemporaneo, si rivolge non a una comunità ma all’umanità intera ed è immagine della plurievocata . Tra il 1914 e il 1922 fu distrutto il vecchio quartiere cinese di Phnom Pehn, che era a nord della città coloniale, per far posto al Résident-Supérieur Baudoin e al tracciamento di alcuni grandi viali. Proprio nel 1920 venne costruito il Museo delle Belle Arti, disegnato in stile Khmer dall'archeologo francese George Groslier. E’ sopravvissuto e contiene una collezione di sculture Khmer. E’ uno dei primi tentativi di regionalismo architettonico tentato dai francesi e tra i pochi che ancora sopravvivono. Nel 1928 iniziarono i grandi lavori di bonifica delle zone esterne della città realizzati dalla Grands Travaux de Marseille (GTM). La Francia sbarcava uomini e mezzi in Cocincina ma dalla città sparivano il quartiere annamita di Svay At, abitato da artigiani al servizio dei coloni, mentre emergevano le nuove steli del potere, che sono quelle che oggi sopravvivono come testimonianze della stagione coloniale: la Stazione dei treni e la Nuova Cattedrale, opere degli anni Venti. Il fascino o pseudo tale che spinge oggi il turista europeo in Cambogia si sazia, dunque, dei frutti proibiti messi a segnare la nascita di in un abitato che, sino ad allora, sino all’Ottocento, era firmato solo dalla pagoda Wat Phnom. Ma quel poco di urbanizzazzione razionale che l’età coloniale aveva cercato di organizzare intorno a questi segni è stato disarticolato dalle crescita tumultuosa degli anni della decolonizzazione. Per questo la città non appare ora coniugata nella sua complessità, bensì caratterizzata per frazioni, intorni, per un mosaico di segnati dalle magniloquenti steli coloniali: gli alberghi, la cattedrale, la scuola diventata prigione dove i khmer-rouge torturavano la popolazione. Steli alle quali altre ancora se ne aggiungono sempre al di fuori di un logica di progetto urbano, ovvero secondo una logica dove la fognatura si ferma al di fuori della cancellata di una grande shopping o di un albergo . Ma c’è una contrologica in tutto ciò, stante l’assenza di ogni permanenza di architettura spontanea e autoctona di qualche storicità, che per sua stessa natura, e per coerenza al progetto coloniale, non poteva venir conservata né all’inizio del Novecento né successivamente. Il dato , quasi di del tessuto edilizio si potrebbe dire, è assunto proprio all’interno della stessa spontaneità e provvisorietà extra-normativa con la quale i cambogiani continuano a costruire addossandosi alla capitale. In questa provvisorietà e scompostezza risiede anche quel coglimento e di che è quanto richiede il visitatore europeo al menù orientalistico. Ecco che, allora, la spontaneità e la povertà delle costruzioni assumono su di sé una sorta di valore di storicità e di tessuto interrotto, con soluzioni di continuità, dalle grandi steli. Steli che, talvolta, appaiono come elementi più recenti dello stesso tessuto slabbrato della baraccopoli-urbana che, invece, si compone per lo più di lamiere, mattoni, ferri e antenne paraboliche spesso sostituite e di fabbricazione ben più recente di ciò che appare. Una incisiva descrizione di questa situazione è in Mekong di Alberto Arbasino: . Resta di colonial-autoctono, icona stessa dell’oriental-style, sebbene periodicamente rifatto in alcune parti, il complesso del Palazzo Reale, vicino al quale dimorava la Duras. Venne costruito, a più riprese, sul luogo dove sorgeva la cittadina di Banteay Kev, iniziata nel 1813, che corrisponde all’attuale centro di Phnom Penh. Nel periodo in cui la Duras era in Cambogia il complesso aveva appena assunto la forma che ancora conserva (nonostante i continui rifacimenti e le ridipinture). Il Palazzo del trono, con la sue torre alta 59 metri, ispirato al tempio Bayon ad Angkor, era stato inaugurato da re Sisowath nel 1919. E’ una struttura in cemento che sostituisce quella in legno del 1869, ma, dopo il regime dei Khmer, quasi nulla rimane degli arredi che l’ornavano. Ricostruita nel 1962 è anche la Pagoda del Buddha di smeraldo o pagoda d’argento, edificata in legno nel 1892 e così chiamata perché il pavimento è coperto di lastre d’argento di un chilo che, stranamente salvate dai khmer, sono state ora ricollocate. Sebbene parte degli oggetti di culto siano stati distrutti alla fine degli anni Settanta, la Pagoda d’argento o del Buddha di Smeraldo (in realtà è cristallo di Baccarat) è uno dei pochi luoghi della memoria. Di fronte al Buddha di Smeraldo, che cambia il suo vestito d’oro tre volte all’anno (uno per la stagione invernale, uno per quella secca e uno per quella delle piogge), guarda i visitatori il Buddha d’oro in grandezza naturale adorno di 9.584 diamanti, il più grande dei quali è di 25 carati. Venne realizzato tra il 1906 e il 1907 e la Duras, grande appassionata di diamanti (almeno così mostra d’essere in Un barrage…) certo lo vide. Di certo vide anche il gigantesco affresco realizzato a inizio Novecento sul muro perimetrale del recinto della Pagoda che illustra il poema epico induista Ramayana. Qui il muro di recinzione diventa retablo, testo illustrato, luogo di una memoria comunque riattualizzata, riscritta, in perfetta sintonia metodologica con il continuo rifacimento degli stessi palinsesti architettonici. Non lontano dal complesso di Palazzo Reale, dalla residenza lungo il Mekong abitata anche dalla Duras, c’era e c’è tuttora il Wat Phnom, la prima pagoda della città eretta nel 1373 per ospitare quattro statue di Buddha trasportate lì, secondo la leggenda, dal Mekong, e scoperte da una donna chiamata Penh. E’ il luogo dal quale prese il nome la strada poi diventata città e quindi capitale della Cambogia, ma non è citato nei romanzi della Duras. Il Wat Phnom è edificato su una collinetta di 27 metri. All’interno del complesso si trova il vihara (santuario) che fu ricostruito due volte nell’800 e, da ultimo, nel 1926. Intorno alla collinetta c’è la rotonda più grande della città, perennemente circondata da ragazzini in motorino che offrono passaggi al prezzo di pochi riel. Nel periodo in cui la Duras soggiornò a Phnom Penh era in costruzione l’Hotel Deco Le Royal, diventato celebre negli anni Settanta perché vi alloggiavano i corrispondenti dei giornali durante la Guerra del Vietnam e perché immortalato nel film Urla dal silenzio. E, di certo, sono state proprio alcune suggestioni cinematografiche a trasformare il del vissuto alcune steli coloniali autocelebrative. Ma oggi, intorno a quest’hotel, come in tutte le arterie più centrali, striscioni inneggiano all’arrivo della consumer-society nelle forme della prossima apertura di shopping-center e filiali d’automobili. I simboli della nuova globalizzazione in formato discount per i paesi più poveri colorano i muri delle baracche accanto ai giganteschi ritratti di Sihanouk e consorte, riapparsi più vivi che mai dopo la barbarie dei khmer. Così l’immagine urbana proietta in poche decine di metri coacervi di contraddizioni: il dettato dall’anormatività delle povere costruzioni, i manifesti di una consumer-society d’accatto, una natura viva e inquieta che avvolge con i suoi rami di mangrovia le antenne paraboliche che si innalzano sgangherate a fianco delle fotografie della più vetusta tra le forme politiche della civiltà, quella della monarchia, sopravvissuta anche ai khmer. I quali, in compenso, vicino all’hotel hanno lasciato una biblioteca pubblica che potrebbe ricordare, come dotazione, sì e no quella rionale di un quartiere periferico di una città europea. Nei negozietti, però, si vendono i portenti della tecnologia, miraggi del benessere: ventilatori, condizionatori e telefoni cellulari. E poco importa il degrado dei palazzi coloniali anni Venti in stile decò o se piove da ogni cornicione o modanatura lacera, dove l’unico addobbo è riservato alle statue multicolori dei Buddha soffocati da sciarpe, corone di fiori di loto e bastoncini d’incenso! Dal 1989, dopo il periodo dei khmer-rouge, a Phnom Penh è stata attuata una politica di restituzione e incentivazione della proprietà privata; per cui molti edifici sono stati privatizzati e ciascuno ha dato il via a lavori di risistemazione privi di regole e su un tessuto assai singolarmente irrilevante. Il ritorno dei rifugiati dopo il 1991 (circa 200mila) ha contribuito inoltre a uno sviluppo abitativo di assai infelice scarsamente coordinato da piani urbanistici. La povertà del Paese e l’inflazione impediscono infatti alla municipalità di dotarsi di servizi adeguati. E la città dei non luoghi e delle contraddizzioni cresce a dismisura. Secondo quella che, in fondo, è il desidero dell’europeo colto in eterna ricerca di evasione.


L’INDOCINA PERDUTA UNA CONCESSIONE SUL PACIFICO

Dopo un breve soggiorno in Francia, il 5 giugno del 1924 la famiglia Donnadieu si imbarcò nuovamente per l’Indocina. La madre voleva andare a Saigon ma, sbarcati a Colombo, capitale di Ceylon (l’attuale Sri-Lanka), venne a sapere che era stata indirizzata nuovamente a Phnom Penh. Tornarono dunque in Cambogia dove rimasero sino al 24 dicembre del 1924, quando la madre, dopo molte insistenze, riuscì a lasciare la città alla volta di Vinh Long, nel delta del Mekong, luogo fondamentale del mito-Duras. Qui, nella Pianura degli Uccelli, iniziò la vera e propria vita di ragazza indocinese della Duras. . Fino al definitivo distacco del 1932, questi luoghi condizioneranno la vita della Duras e, successivamente, la sua opera. E’ in questo periodo di relativa tranquillità che, nel 1926, Marie Legrand decise di investire tutti i propri risparmi acquistando una concessione sul litorale dell’Oceano Pacifico, che credeva coltivabile. Voleva dare una svolta imprenditoriale alla propria vita, costruendo un bungalow e affidando a dei contadini la coltivazione di una vasta area che, come invece ben sapevano gli ufficiali demaniali che gliel’avevano venduta, veniva annualmente sommersa dalle maree del Pacifico, rendendola incoltivabile. La concessione si trovava a Prey-Nop, nel Sud-ovest della Cambogia, nella regione del golfo del Siam e del mare della Cina. La madre, per tre o quattro anni cercò di opporsi agli elementi naturali costruendo delle dighe. Poi, il sogno della madre diventò quello di unire tutti i truffati per costruire un’unica grande barriera in modo da impedire al Pacifico di inondare la concessione; tema, questo, del terzo romanzo della Duras, scritto a 36 anni, Un barrage contre le Pacifique. La costruzione impegnò 100 operai e la diga venne costruita. Ma un giorno, durante le vacanze scolastiche, l’Oceano spazzò via anche questa. La madre, quindi, quasi in preda alla follia, incominciò per anni a protestare contro gli agenti del catasto di Kam, a chiedere risarcimenti… ma alla fine, come una persona in buona fede dalla società (così scrive la Duras), dovette arrendersi. Prey Nop, non lontano dalla catena dell’elefante, si trovava a 80 chilometri da Kampot, nel sud-ovest della allora Cocincina. Distava da Sadec e Vinh Long una notte e un giorno; almeno due da Saigon. Prey Nop era un paese d’acqua, sommerso sei mesi all’anno, proprio come la terra acquistata da Marie Donnadieu. La regione in cui si trova Prey-Nop era stata esplorata dai bianchi solo a inizio secolo; Baudoin fu tra i primi a visitarne i cammini nella giungla. A parte i cinque ettari di terreno lungo la strada, dove i Donnadieu costruirono il bungalow, la terra della concessione veniva sommersa ogni anno dall’acqua e resa incoltivabile. Come, del resto, tutto il litorale del Pacifico. E ciò avvenne anche dopo l’ingenua costruzione della diga. . Le concessioni non erano nemmeno date a titolo definitivo; potevano essere riscattate dai funzionari del catasto che le giravano ad altri ignari concessionari che pensavano di trarre profitto da terre coltivabili. Per anni, comunque, i Donnadieu si recarono periodicamente da Sadec a Prey Nop, e certamente sempre durante i periodi di vacanza, coprendo tratti di strada che rivelavano e tutt’oggi spalancano alcuni degli scenari più incontaminati del Sud dell’Indocina. Talvolta, partendo nel fine settimana, percorrevano 1.600 chilometri per visitare velocemente la concessione. Andavano in macchina di notte lungo strade dissestate: c’è una foto che immortala, da lontano, Marie Legrand e Paul in Cambogia in direzione della concessione, fermi sulla strada, a lato della loro macchina. Presso la concessione i Donnadieu vissero i sei mesi durante i quali venne costruito il bungalow, e sempre insieme ai domestici. Marguerite era allora un’adolescente e viveva la vita libera del rac idocinese narrata in Un barrage… Tutti i Donnadieu erano come figli della giungla: sparavano agli uccelli, sbirciavano le tigri, cacciavano i serpenti. Qui l’acqua segna la vita e il paesaggio di quell’Indocina anni Venti. . E ancora: . Quella che la Duras ci consegna è l’immagine della natura avvampante dell’Indocina, luogo dell’esotismo patinato e sognato dal flaneur in fuga dalla civiltà e luogo talmente inattingibile che la Duras eccita la fantasia del malato d’oriente in stile tardo Pierre Loti alla sola idea di esserne stata partecipe. Il bungalow dei Donnadieu, doveva esser stato costruito sul modello di quelli coloniali anni Venti, ormai scomparsi. Era costituito semplicemente di due camere da letto, una sala da pranzo e una cabina da bagno, quella nella quale la Suzanne-Marguerite si mostra al cinese M.Jo in Un barrage… C’era inoltre una veranda tra i filari dei banani. Quel bungalow costò 5mila piastre e fu costruito in legno su palafitte. I Donnadieu cenavano nella sala da pranzo alla luce dell’acetilene e, dopo cena, ascoltavano al grammofono il motivo di Ramona. Intorno al bungalow i contadini accendevano fuochi di legna verde per proteggersi dagli animali. E loro lì, come ancora oggi molti contadini, si sedevano sulla veranda a guardare il cielo del Siam: . Anche quando abbandonarono la speranza di coltivare la concessione, di tanto in tanto i Donnadieu si recavano al bungalow. La Duras lo ricorda in un passo di L’amant. . Il tetto del bungalow era imputridito dalle piogge, ma i mobili all’interno venivano sempre ben puliti dai domestici, che sopravvivevano con il poco riso che si poteva coltivare nella parte alta della concessione. L’addio definitivo alla concessione cambogiana avvenne un anno e mezzo dopo l’incontro con il cinese sul traghetto lungo il Mekong: . E’ una delle immagini-mito dell’Indocina perduta, dove il luogo è il territorio a perdita d’occhio, dove lo spazio incognito è il luogo dell’essere.


IL DELTA DEL MEKONG

Ai litorali sommersi dal Pacifico, alla foresta di rac e ai monti del Siam sfumati nell’umidità manca un altro luogo allegorico dell’Indocina perduta: il delta del Mekong. Il terzo fiume dell’Asia, che nasce dal Tibet e sfocia nel Mar Cinese meridionale, è come un serpente a nove code con ogni coda divisa in novecento canali che fanno del delta un gigantesco tappeto afoso e alluvionato. . Il delta del Mekong, nell’estremo sud del Vietnam, fu abitato sin dal primo secolo da pescatori di cultura induista che diedero vita al Regno del Funan, il cui destino fu poi assorbito dalla storia Khmer. A Tra-Vinh sono ancora numerosi i reperti della cultura khmer alla quale le popolazioni vennero assoggettate prima che l’ondata Vieth li raggiungesse da Nord, sottraendoli alla storia della Cambogia. La zona del delta fu l’ultima ad essere al territorio vietnamita: sino al XVIII secolo fu assoggettata ai cambogiani che la chiamavano. Ancora tre-quattro secoli fa, a est di Mytho, la Pianura degli uccelli – alla quale la Duras fa riferimento in L’amant - era una fanghiglia paludosa abitata da volatili e coccodrilli. Le foreste di mangrovie attorno a Camau danno ancora oggi l’idea di uno spazio primordiale, dove il silenzio è rotto dalle strida di migliaia di uccelli. Solo con l’arrivo dei francesi la mano dell’uomo incominciò a plasmare il delta lasciato libero da molti possidenti locali in fuga verso il Tonkino o l’Annan. E in pochi anni la Cocincina divenne il secondo granaio del mondo dopo la Birmania. Come la Duras settant’anni fa, ancora oggi i bambini vietnamiti si sporgono dai bassi argini delle risaie e si immergono nei rach – i canali di irrigazione – per fare il bagno e talvolta giocare con i bufali d’acqua o a pescare grasse carpe. La lentezza è la misura della vita lungo questi canali pescosi solcati da canoe dalla chiglia snella che lasciano il posto, sui bracci tumultuosi del fiume, a giganteschi barconi con la prua colorata da facce di divinità protettive. E’ un braccio di questo Mekong che la Duras descrive in L’amant quando, durante l’attraversata sul traghetto, incontra quello che diventerà il suo amante cinese. E’ l’immagine durassiana per eccellenza che si sposa con l’immagine indocinese per eccellenza: quella del delta del fiume con la sua pianura alluvionale. Il territorio dell’intreccio del delta si proietta nelle pagine e diventa territorio dell’intreccio del romanzo. Il fiume Anche il romanzo trascina i sentimenti dei due amanti, sino a farli sprofondare nel torbido, tar i flutti delle accensioni passionali. Le braccia del delta . Anche l’abbraccio della passione è, per la protagonista del romanzo, l’abbraccio più grande del mondo. I due territori, quello del fiume e quello del romanzo si sovrappongono. L’immagine del primo costituisce lo sfondo del secondo davanti al quale, in un’Indocina che è terra femminile, recitano il loro dramma le donne: la madre, l’amante, la pazza di Vinh Long che è poi la stessa pazza del Bengala citata altrove, e la pazza di Calcutta e del Gange che compare in altri passi dei romanzi della Duras. Non tutto lo stupore del delta anni Venti proiettato nelle pagine durassiane è andato perduto, anche se, oggi, la pervasività dell’organizzazione turistica – che fa gran breccia nei paesi poveri dell’Asia – ha disvelato l’incantesimo e franto lo stupore. Sui quai (pontili) di Mytho, punto d’arrivo o di passaggio obbligato dei traghetti che da Sadec e da Vinh-Long vanno in direzione di Saigon, i mercati brulicano ancora di contadini, e i bambini vendono pesci, ortaggi, pollame e mercanzie varie. Mytho è ancora un agglomerato dove non si sa dove finiscano i canali e inizi la terra, dove il limo invade le tane dei pesci e le palafitte degli uomini. E, con i suoi 90mila abitanti, è al centro di una delle zone rurali più belle del delta. Mytho venne fondata tra il 1689 e il 1690 da profughi cinesi provenienti da Taiwan. Era, già ai tempi della Duras, sede di un florido mercato, di allevamenti di serpenti e dei frutteti sull’isola di Longan. Ma anche Nytho non è più lo stesso. Qui tutto è cambiato dopo il bombardamento americano del 31 gennaio 1968 che ha sepolto la vecchia città. E l’abitudine al dollaro ha mutato i comportamenti dei vietnamiti. Si vedono ancora le giunche, ma anche molte barche a motore cariche di turisti in gita sul Mekong. La pagoda di Vinh Trang, meta di escursioni organizzate, è un’eclettica chincaglieria per occidentali dove gli oggetti rituali del buddismo si confondono in mezzo a un piccolo parco dei divertimenti che ospita anche un aereo dell’aviazione americana. L’altro centro nevralgico da cui si diramano i trasporti, fluviali e in autobus, del delta del Mekong è Cantho, cuore politico della regione. Da qui si può partire per Long Xuyen, storica roccaforte della cultura Hoa Hao, fondata, però, 1939, o Chau Doc, capoluogo del distretto di Tan Chau famoso in tutto il mondo per la lavorazione della seta. Ora il luogo si è arricchito, e vi proliferano boutique semi di lusso sormontate da antenno parabolici che sono il doveroso status-symbol di ogni negozio. A sud ovest da qui sorge il monte Sam, ancora costellato di templi e pagode, molte delle quali costruite all’interno di grotte. L’influenza cinese è chiara ed è questo il motivo per il quali il monte è uno dei luoghi più visitati dalla comunità cinese vietnamita e da turisti provenienti da Hong Kong e Taiwan. Quanto Rach Gia è una tranquilla cittadina portuale sul golfo del Siam nota, ai tempi della Duras, per la creazione dei ventagli cerimoniali con grandi piume. Qui è anche il tempio di nguyen Trung Truc, l’eroe che tra il 18760 e il 1870 si pose a capo della rivoluzione vietnamita contro i farncesi. Fu colui che appiccò fuoco alla nave da guerra Espérance e che venne giustiziato nel mercato di Rach Gia il 27 ottobre del 1868. Nei dintorni di Rach Gia resistono le rovine di Oc-Eo, che dal I al VI secolo d.C. fu uno dei principali centri di scambi commerciali del regno hinduizzato del Funan, che comprendeva allora regioni del Vietnam meridionale, parte del sud della Cambogia e la penisola malese. Camau, infine, sorge al centro della più grande palude di mangrovie del Vietnam. Il terreno paludoso ha reso quest’area inospitale e scarsamente popolata; e qui resistono alcune comunità khmer. Ed è questa la zona dove vivono i grandi uccelli acquatici del sud Vietnam. E’ a quest’area che si richiamano alcuen immagini del primo libro indocinese, Un barrage…


I LUOGHI DEL DELTA VINH-LONG

Ma se il delta è stato stravolto, a contrario, a Vinh Long scrive la biografa della Duras, la Adler. La cittadina, capoluogo della regione e punto di imbarco verso Saigon, negli anni Venti era spesso semi-alluvionata e caratterizzata da boutique cinesi e annamite. Qui i Donnadieu vivevano in una parte isolata, all’inizio del viale d’ingresso alla città. Avevano un parco che dava direttamente sul fiume, come descritto nel Viceconsole della Duras. C’erano due scuole, una per ragazzi e una per ragazze, che Marie Legrand dirigeva. La madre della Duras aveva sotto la sua responsabilità un centinaio di allievi. In città c’era anche un curato cattolico. Vinh Long era una bella cittadina già a fine Ottocento, come appare nella descrizione di The French in Indo-China. . Anche di Vinh Long, la Duras non ha conservato fotografie. . Bisogna aiutarsi, dunque, per ricostruire quelle atmosfere, con foto d’inizio secolo. Si scoprono così ordinate palazzine coloniali tra i palmizi, un garage delle carrozze a motore, ma anche palafitte di fango e foglie di palma del Song Rach Gan Cho e lo scomparso monastero di Bênh Xà Vung Liêm dal gigantesco tetto di paglia. Ma è proprio qui, a Vinh Long, che la famiglia Donnadieu incominciò a impoverirsi ed è qui che Pierre iniziò a frequentare le fumerie d’oppio, diventando violento con i fratelli, i vicini e i domestici. Le fumerie d’oppio caratterizzano pure la old Vinh Long. I tre ragazzi Donnadieu, in questi anni, giravano a piedi nudi e parlano vietnamita. Anzi, la famiglia si era a tal punto integrata con i locali che la madre era poco sopportata dalla comunità bianca. Nascono qui altri incantevoli ricordi del paesaggio indocinese, quello sul quale oggi si innestano i segni della globalizzazione senza che la natura – in parte incontaminata – abbia attraversato secoli di maturazione con la civilizzazione e la storia. . A Vinh Long, però, c’era anche il colera e, a volte, i lazzaretti erano pieni. Si viveva delle zuppe degli ambulanti del Mekong che la madre acquistava di notte, come ricorda la stessa Duras in Les enfants maigres et jaunes (pubblicata su nel 1976). E così questa città diventa anche luogo delle paure ancestarli, oscuro, misterioso: . Ma anche qui a Vinh Long, all’ombra della pagoda confuciana del 1866, e in un ambiente dove si sente ancora forte sia la presenza del fiume (sviluppatissima è la pesca) sia la tradizione dell’artigianato (vasi di terracotta), la ha portato le sue stigmate. Primo fra tutti il grande e avveniristico ponte simil-Santiago Calatrava costruito alla periferia della città. E’ il My Thuan bridge sul Tien River, un braccio del Mekong, costruito in tre anni e inaugurato per il nuovo Millennio. E’ l’icona della rinascita e, come sempre, è una stele senza luogo. Persino un ponte, l’artificio che congiunge due luoghi tradendo il corso della natura, qui riesce ad essere uno dei tanti feticci (antenne paraboliche, neon, ecc…) innestati su una natura con cui non dialogano e completamenti avulsi dalle tracce della storia di una civiltà, poiché non ci sono tracce. Le altre steli sono gli hotel, come il moderno Cuu Long Hotel in Thang street mentre persino i centri di diffusione delle tradizionali arti marziali vietnamite risentono di una . Il resto è circuito turistico: imbarcazioni per navigare i rac, visita al mercato galleggiante di Cai Bè, pranzi al ristorante Le Jardin, trasferimento a Cantho e visita della pagoda dei pipistrelli. Tappe più che luoghi. Resta d’atmosfera solo qualche viale, anzi, e, testimonianza della stagione coloniale, l’arcivescovado cattolico: il vicariato apostolico della Cocincina Occidentale sorse il 2 marzo del 1844. La sede di Vinh Longh venne inaugurata l’8 gennaio del 1938. Quanto alla Duras, nel settembre del ’28, Marie Legrand venne nominata direttrice della École des filles di Sadec, un piccolo centro vicino a Vinh Long. Qui e da questa data la famiglia Donnadieu incominciò a impoverirsi, perché quando la madre ricevette la pensione di vedova e vendette la casa di Hanoi maturò l’idea di acquistare la concessione a Prey Nop. Marie, comprandola, ottenne 300 ettari gratuitamente, ma, come detto, la concessione non diede alcun frutto. SADEC Una borgata lungo il Mekong tra la vegetazione e l’odore della menta. Una scuola coloniale dalla facciata imponente, piccole classi e cinque fumerie d’oppio. Una lungo il fiume nella quale il fratello della Duras, Pierre, praticamente viveva. Le foto di inizio secolo di Sadec, dove la vedova Marie Legrand insegnava e viveva con i figli, mostrano edifici coloniali come il Dinh Thù Nhà Khach Tinh, i mercati delle merci, la pagoda di Chùa Nguòi Hoa, canalizzazioni ordinate e, come sempre, molti palmizi. Qui il padre dell’amante cinese di Marguerite, che la Duras avrebbe poi incontrato sul traghetto nel viaggio descritto nella prima parte di L’amant, aveva delle proprietà e abitava in una grande villa decorata d’azzurro app ena fuori dal paese. . Ora, a Sadec, c’è anche la tomba dell’amante cinese, che si chiamava Leo. L’interno della casa di Sadec della famiglia Donnadieu era quello di una architettura tipicamente coloniale. La Duras lo descrive in L’amant de la Chine du Nord. . Ma l’architettura coloniale minore è quasi del tutta cancellata, ce ne si è voluti liberare drasticamente e la povertà non ha consentito di varare piani di salvaguardia. Sadec resta così il luogo intangibile, lontano da tutto: dalle mete turistiche e dalle pagine del romanzo. Presto sarebbe diventato lontano anche per la Duras. Nel ’29 infatti, quando Marie Donnadieu si rese definitivamente conto di aver perduto la propria fortuna nell’acquisto dell’inutile concessione, iniziò a preoccuparsi dell’educazione della figlia, iscrivendola al liceo Chasseloup-Laubat di Saigon. Così la scena cambia; il romanzo e la vita della Duras ci portano nel cuore dell’Indocina. Sadec resta ai margini. Si sa solo che talvolta, nei week-end, Paul accompagnava la madre sulla vecchia Citroen da Sadec a Saigon per andare a trovare Marguerite. Altre volte era la figlia a fare il viaggio in senso opposto. Uno di questi viaggi, com’è noto, fu il viaggio durante il quale, sul traghetto che attraversa il Mekong, Marguerite incontrò il suo amante cinese, protagonista di L’amant. Ancora oggi esiste il pullman che da Sadec viene imbarcato sul traghetto per attraversare il Mekong fino a Mytho. E, da qui, via terra per Saigon-Ho Chi Minh City. Da Sadec, in fondo, veniva anche la ricchezza dell’amante cinese. Quando la Duras chiede al cinese di spiegare l’origine della sua ricchezza, lui la descrive così: “Tutto è cominciato a Cholen con i ‘compartimenti’ per indigeni. Ne ha fatti costruire trecento. Posside intere strade… Il padre ha venduto immobili per comprare terreni edificabili a sud di Cholen. Gli pare che abbia venduto anche delle risaie a Sadec. Gli domando come fa con le epidemie. Dico di aver visto intere strade di compartimenti chiuse da un giorno all’altro, con porte e finestre sbararte per l’epidemia di peste. Mi dice che qui ce n’è meno, si derattizza più spesso che nelel località della savana e attacca un lungo discorso sui ‘compartimenti’. Costano molto meno dei palazzi e delle case singole e rispondono meglio alle esigenze dei quartieri popolari. Qui alla gente piace stare insieme, soprattutto alla gente povera che viene dalla campagna e che è abituata a star molto all’aperto. Le abitudini dei poveri vanno rispettate. Suo padre, appunto, ha appena fatto tutta una serie di ‘compartimenti’ con gallerie coperte che danno sulla strada, così le strade sono più luminose, più piacevoli. LA genete passa le giornate nelle galelrie esterne, ci dorme persino quando fa molto caldo”.


FORESTE, PORTI, STRADE

I villaggi di giunchi, il delta del fiume, la foresta, i rac, l’immensità della pianura di Camau, il fango, le strade lunghe dritte bianche con la processione delle carrette tirate dai bufali d’acqua e guidate dai bambini, tutta la Cocincina degli anni Trenta oltre le porte dei paesi e delle città conosciute sono, nei romanzi della Duras, i luoghi del mistero e del pericolo, oppure quelli dell’infanzia perduta e vissuta in contatto panico con la Natura. Sono lo spazio carico di un linguaggio precluso a chi non vi ha abitato. Il trovatello Thanh (l’orfano della foresta del Siam) che viveva come domestico presso la famiglia della Duras a Sadec, emerge in L’amant de la Chine du Nord come colui che . Ma, come ogni luogo del mistero, la Natura dell’Indocina era anche il luogo dell’incanto, rappresentato ora dalla foresta, ora dal fiume ora dalla baia di Halong. E’ . E’ l’incanto ora cancellato dai tour o dalle forzate rivisitazioni nei persa dai soldati a stelle e strisce. L’incanto esiste solo nell’assenza dell’oggetto o del luogo; per cui allora, quei luoghi, erano incantevoli nella fanciullezza come ogni altro angolo della terra. La fatica divorava le forze degli adulti. Tutti i luoghi del delta erano allora segnati dalle acque del grande fiume. Le foto d’inizio secolo di Gia Dinh o di altri abitati, mostrano dovunque acqua e quanlche presenza architettonica che segnala l’interrompersi del territorio: la pagoda Lang Cha Cà–Binh Phong, il cimitero, i distesi palmizi come . Gli archivi di Saigon conservano foto d’inizio secolo anche di Biên Hòa, con coltivatrici indigene nude nella parte superiore del corpo e munite di gerla. A Mytho, in compenso, le foto mostrano l’attracco di traghetti e piroscafi di grandi dimensioni, mentre agili barche risalivano gli immensi rac dai nomi impossibili. A Rach Già, le immagini mostrano che già nei primi anni del secolo l’amministrazione coloniale aveva fatto installare l’illuminazione lungo le strade e, come in ogni altro luogo, aveva fatto edificare la cattedrale gotica. Nota bene Stefano Grossi che . E queste immagini dei fiumi, delle loro curve e delle loro foci, sono un’allegoria della scrittura durassiana. Questo incanto, tuttavia, è rotto nella letteratura e, anche nella realtà, dalla scoperta di una Natura che è anche malevola, origine delle sciagure della famiglia Donnadieu e, dunque, anche all’origine di quella lunga elaborazione del che sono i romanzi della Duras. La natura malevola è rappresentata dall’Oceano, che inonda le terre acquistate dalla madre in Cambogia e che distrugge la diga costruita davanti alla concessione per proteggerla. Un tema, questo, che non è solo il motore del primo romanzo, ma anche di L’amant e di L’amant de la Chine du Nord. Il territorio come elemento dell’incanto e della tragedia, come scaturigine di quel bello-terribile proprio del sublime bukeriano è presente in tutto il territorio indocinese e in molti romanzi della Duras. Emblematica, a questo proposito, la descrizione dell’inondazione delle terre da parte dell’oceano: . Soprattutto il territorio cambogiano è l’icona di questa dialettica del sublime, dove il territorio è scaturigine dell’incanto e spazio della tragedia. Per questo motivo, per la Duras, la Cambogia resterà sempre un territorio dell’accettabilità: le maree che distruggono il sogno di riscatto sociale, i templi distrutti dalla Natura ad Angkor, il padre che si ammala durante il soggiorno a Phnom Penh. La Cambogia riemerge nel vissuto durassiano come il luogo dell’oscuro, la terra dei demoni, delle divinità fissate in bassorilievo sui templi di Angkor. . E’ un territorio inurbanizzabile: pena la l’archivizione del tormento e dell’incanto. Di questo aspetto, Angkor, è ancora oggi il simbolo superstite e il luogo emblematico. Riscoperta nell’Ottocento come una Paestum asiatica arrivata un secolo dopo, Angkor è il luogo dove ogni estetica del sublime e del pittoresco si riflette con assoluta precisione. Angkor è la messa in scena di una natura drammatica, dove con simmeliana precisione la giungla e l’umidità si riprendono quanto lo spirito costruttivo dell’uomo ha innalzato una città e dei templi a gloria dei sovrani khmer. Angkor è la fetta ritagliata tra la giungla dove, tra il IX e il XIII secolo, i re khmer utilizzarono le ricchezze dell’impero per realizzare costruzioni monumentali e templi di origine induista, e che già ai tempi della Duras era l’ombelico distrutto della memoria cambogiana. Le prime immagini dei templi di Angkor erano state stampate in Francia nel 1873 nell’Album Pittoresque of the Atlas du Voyage D’Exploration en Indo-Chine, frutto di un viaggio da sei esploratori francesi, tra i quali, il più noto, Francis Garnier. Della Mekong expedition faceva parte anche Louis Delaporte, che nel 1880, a Parigi, pubblicò fascinose incisioni del viaggio con il titolo Voyage au Cambodge et L’Architecture Khmer, che resero note le rovine in tutta la Francia. Da allora Angkor divenne il mito dello splendore delle origini, l’ irraggiungibile via terra perché solo l’acqua, solo il fiume è via di trasporto in quella fetta della Coincina. E non senza pericoli, con pirati, sul fiume, con gli sbandati intorno ad Angkor-Vat e Angkor-Thom, e con scimmie urlanti e bisce nascoste tra le pietre che celebravano il mito di Jayavaraman VII (1181-1201). Senza parlare della gigantesca boscaglia gotica da penetrare in un ambiente fortemente malarico. Poco di questo autentico mistero si specchia nell’odierno consumo dei turisti malati d’esotismo, che stanno portando alla costruzione di una Siem Reap (la località sorta presso le rovine di Agkor) alberghiera, con complessi a cinque stelle che si affiancano al coloniale Grand Hotel d’Angkor, unica presenza colonial-vintage la cui costruzione venne completata nel 1928. Quella che rischia di consumarsi anche ad Angkor, come scriveva Arbasino in Mekong, è una delle classiche incomprensioni tra Oriente e Occidente: . Questo è il rischio che corre Angkor. Naturalmente le magnifiche torri in onore di Vishnu dell’Angkor Wat, edificate da Suryavaram II tra il 1112 e il 1152, così come il misterioso e sconvolgente terzo livello del Bayon con le sue 49 torri dalle quali spuntano le 172 gigantesche facce di Avalokitesvara dal gelido sorriso, sono protette dall’Unesco, che li ha dichiarati World Heritage Site dal 1991 ed è riuscito a realizzare reali interventi di conservazione. Ma anche significativi e sciagurati ripristini, come denota, con il suo stile sferzante, ancora Arbasino. . Questo confronto tra Natura e civiltà, con i progetti di civiltà destinati a soccombere alla Natura, si scopre anche in molti passi dell’opera durassiana. Ad esempio quando la scrittrice parla di Long Hai, il luogo della paura. . Prey Nop, invece, dove la madre ha costruito la diga, resta non tanto il luogo della corruzione del mondo quanto quello mitico dell’infanzia: . Questi paesaggi indocinesi, protagonisti dell’opera durassiana, lo sono diventati anche della filmografia francese sull’Indocina. Nei film che riguardano il periodo coloniale in Indocina, i protagonisti assoluti sono i paesaggi esotici, le spiagge bianche e lunghe, la baia d’Halong, le distese di risaie e le giungle tropicali. Son tutti luoghi del sublime. I romanzi della Duras hanno costituito un riferimento per questo cinema francese e due sue opere sono state anche adattate: Barrage contre le Pacifique di René Clement, del 1957 e L’Amant di Jean-Jacques Annaud, del 1991 (contestato dalla scrittrice). Inoltre, la vita nelle piantagioni di caucciù, filmata in Indochine di Régis Wargnier del 1992, mostra bene il difficile rapporto che si instaurò, negli anni Trenta, fra il colono francese, proprietario terriero, e gli indocinesi colonizzati. Anche nella riduzione cinematografica, la terra è sempre un territorio del sublime: fonte di sostentamento e bene conteso. Ma proprio sul futuro di questi paesaggi e, soprattutto, sul delta del Mekong, sul futuro di questa fetta di terra , incombe invece un brusco risveglio: la costruzione di ciclopiche dighe che potrebbero metterne a repentaglio le caratteristiche per favorire lo sviluppo delle comunicazioni e dell’energia elettrica. Dalla sorgente himalayana fino al delta nel Mar Cinese Meridionale, il Mekong scorre per 4500 chilometri attraverso sei Paesi in cui vivono 230 milioni di abitanti: Cina, Birmania, Laos, Vietnam, Cambogia e Thailandia. E questi paesi sostengono ora un piano transnazionale articolato in più di cento «progetti prioritari», per un costo di circa 40 miliardi di dollari, che prevede la costruzione entro il 2010 di dighe con centrali idroelettriche sul fiume. La principale diga, da costruire nello Yunnan, creerebbe un bacino capace d'imprigionare per 6 mesi il 20% delle acque del fiume, che ha un fluire annuo di 500 miliardi di metri cubi d'acqua. Il minor flusso del Mekong aumenterebbe le infiltrazioni di acqua salina nella regione del delta mettendo in pericolo le risaie, «granaio» del Vietnam, oltre alla fauna. Una nuova strada asfaltata dovrebbe invece essere realizzata sull'asse Bangkok-Phnom Penh-Saigon: ad oggi, Saigon-Phnom Penh sono collegate da una strada non sempre asfaltata man mano che ci si allontana da due centri e interrotta per l’attraversamento di un braccio del Mekong, che si supera attraverso un traghetto. Inoltre, con sbarramenti e dragaggi, il Mekong potrebbe esser reso quasi interamente navigabile e la regione del delta, la Pianura degli Uccelli, inclusa in un'unica rete telefonica e telematica a fibre ottiche che favorirebbe lo sviluppo di aeroporti e alberghi di lusso, che favorirebbero la trasformazione del bacino del fiume in un polo turistico incentrato sulle città dei templi (Pagan in Birmania, Luang Prabang in Laos, Angkor in Cambogia). Le critiche sollevate da alcune organizzazioni ecologiste internazionali hanno rimesso in discussione il finanziamento della Banca Mondiale a questi progetti, sostenuti anche dall'Asian Development Bank e dalle finanziarie giapponesi. Senza contare che, a causa della guerra o dei disboscamenti, le foreste, in Vietnam, sono diminuite dal 43 al 27 per cento del territorio.


LA CITTA’ DEI NON-LUOGHI LA CITTA’ COLONIALE

E’ in un lungo brano del Barrage che la Duras descrive un modello di città coloniale molto simile a Saigon. . Appare già in questo brano la principale critica allo sviluppo delle città coloniali: quello di essere città divise, non integrate, di recisioni. La critica è esplicita in altri passaggi: . La città bianca è un proscenio dove va in scena una rappresentazione: la sfilata dei nuovi potenti. E’ una parata sacrale che si svolge ogni giorno in una scenografia curata sino al dettaglio. La città dei bianchi dev’essere l’immagine di pietra e di organismi vegetali del nuovo potere. Deve rimarcare la cesura tra la città dei non luoghi e quella dello spazio urbano ordinato e rappresentato. L’urbanistica diventa qui scenografia per creare, all’interno dell’orizzonte più esteso che comprende tutta la città e il territorio circostante, un altro non-luogo: quello dell’istituzione. L’urbanistica diventa lo strumento che mette in scena un potere interdittivo che si fonda sull’ordine, che è anche l’ordine delle strade, dei viali. Anzi è qui che l’urbanistica haussmaniana trova un facile compimento. I concetti di rete e di sistema, che ricorrono nei (1890-1893) che Haussmann pubblicò dopo aver lasciato la prefettuar della Senna, trovano nella il modo di dipanarsi ben più che a Parigi che, anche dopo l’annessione dei comuni rurali nel 1859, restò chiusa all’interno delle mura elevate da Thiers. Qui si dispiegano i reticoli degli spazi verdi con gli elementi di arredo urbano. Qui si dispiegano passeggiate e piantagioni proprio come tentato a Parigi durante il Secondo Impero da Adolfo Alphand, appunto Direttore delle Passeggiate e Piantagioni. Qui sembra realizzarsi davvero quell’inizio di era nuova di cui parlava César Daly e Alphand a proposito di Parigi riferendosi, appunto, ai tracciati haussmaniani e alle passeggiate e piantagioni di Parigi. Quello che Napoleone III, Haussmann e Alphand creano in vent’anni a Parigi parzialmente, qui può essere realizzato con radicalità distruggendo l’esistente. La cancellazione dei referenti e dei luoghi è sistematica; l’urbanizzazione coloniale sostituisce ogni forma urbana preesistente. L’abitato pre-coloniale viene cancellato, con le sue memorie . Dunque, sulle strade ordinate della città coloniale bianca, la messa in scena è curata in ogni particolare rappresentativo: E’ una descrizione, di fatto, di rue Catinat di Saigon, la strada dove potevi comprare ogni cosa senza sentirne il peso, senza mercanteggiare come nella città indigena. L’ordine urbanistico era anche un ordine economico. Ogni stele della città bianca è un , ovvero, etimologicamente (dal latino ) un ammonimento. Ogni messa in scena ammonisce, ricorda, rammemora il potere e concorre a formare una identità del potere. Le città coloniali, per le quali, di fatto, la Duras nutre la stessa profonda nostalgia che ha per la propria infanzia, sono sempre descritte dalla scrittrice nella duplicità della quale si nutrono. . Due città in una, una città a doppia velocità. E che faticavano a incontrarsi sebbene si tocchino. . E’ facile leggere in filigrana come si sviluppava la Saigon di allora, tra i lembi estremi della città coloniale, le fumerie d’oppio, il quartiere di Cholon, la città cinese, la città proibita. Lo spazio è il luogo di congiunzione, il luogo della reciproca diffidenza. Tutto va in scena: il fiume davanti, il tram dietro, il luogo della perdizione. Non c’è dialogo tra luoghi al di fuori del microdialogo che si ha nel dei bianchi. Tutte sono steli scenografiche. SAIGON Saigon era per la Duras una città con una geografia dettata da luoghi riconoscibili. Saigon non è un mirabile racconto di parti una connessa all’altra: non lo è oggi, non lo era all’inizio del secolo. E’ un territorio senza langue, ma con delle parole, frasi, metafore in un tessuto senza connessione. La Duras ha inventariato come un’entomologa alcuni punti di riferimento di questo tessuto: . La scrittrice, dunque, percepiva la città come una radura abitata, come un territorio di steli ritagliato tra risaie, con grandi viali e luoghi emblematici scomparsi nel loro valore epifanico, la rue Catinat con i negozi proibitivi, il giardino zoologico dove veniva mostrato l’esercizio dell’elefante, l’Hotel Continental con i suoi segreti, come ricorda nei commenti alla riduzione cinematografica di L’amant di Annaud. Anche oggi, la città, che si avvia ad assumere le tipologie caratteristiche delle seppur in tono minore, è riconoscibile solo in centro e solo per steli più cariche di storia che di valore artistico, orientate intorno all’asse della vecchia rue Catinat, il della città. A dire il vero, Saigon era sempre vissuta un po’ sul rispetto delle vie, della strada urbana come elemento di riconoscimento, di vita, in una direzione esattamente opposta a quella che, negli anni Trenta, Le Corbusier avrebbe sbandierato come un successo: . Un riconoscimento non generato dalla articolazione e dal rispetto morfologico dell’edilizia, ma per punti significativi. E ciò era andato accentuandosi con l’occupazione francese. Saigon era stata occupata dalle truppe di Napoleone III il 27 febbraio 1859. Nei successivi anni il Governo degli ammiragli aveva raso al suolo la vecchia cittadella per costruire la metropoli coloniale. In pochi decenni, Saigon venne trasformata, nuovi edifici e nuove strade urbane assunsero valore emblematico di steli di riferimento all’interno di una divisa tra città dei bianchi, insediamento vietnamita e città cinese di Cholon. Furono allora tracciati i grandi viali, come boulevard Charnier, realizzato coprendo un canale, e la storica rue Catinat, la via del lusso, dei locali, degli hotel che dal Saigon River portano ancora oggi dritti alla cattedrale, passando per il teatro Municipale, inaugurato con grande sfarzo il 17 gennaio del 1900. Tra il 1877 e il 1880 venne edificata la Cattedrale dell’Immacolata Concezione, le cui due torri campanarie hanno rappresentato, e ancora rappresentano, il principale punto di riferimento del centro di Saigon. Il Teatro Municipale era l’orgoglio di Saigon coloniale: è un edificio art-decò con un fastigio decorativo che corona l’arco a tutto sesto d’ingresso, dietro al quale sporgono i tetti alla francese. E’ stato recentemente ritinteggiato in un rosa alternato al beige delle lesene. Ma la sua collocazione, di fatto, è ormai incomprensibile, schiacciato com’è dalla gigantesca mole del nuovo Hotel Caravelle che gli sta a fianco. Sul lato opposto, invece, dialoga con i tre piani dell’Hotel Continental. Nel luogo dove oggi sorge il Palazzo della Riunificazione, fredda architettura razionalista in pseudo stile vietnamita, era stato costruito, nel 1866, il Palazzo del Governatore Generale dell’Indocina (distrutto nel 1962). Qui, alle 11,30 del 30 aprile 1975 un carro armato T54 della 203esima brigata nord vietnamita sfondò la cancellata ponendo fine alla guerra del Vietnam. Ai tempi della Duras il Vecchio Palazzo del Governatore era al mezzo del più grande parco della città, ricco di alberi secolari, prospiciente al più celebre circolo sportivo coloniale, il Cercle Sportif. In questo parco, ancora nel 1942 si tenne la Fiera di Saigon. Il Palazzo era stato fatto costruire dal governatore Lagrandìere, che aveva posto la prima pietra il 23 febbraio del 1868. Realizzato in stile classico con qualche incursione di gusto romantico, il Palazzo, chiamato Norodom Palace, fu ultimato nel 1870. Come accennato, il presidente Ngo Dinh Diem lo fece abbattere per costruirvi un più moderno e razionalista palazzo di rappresentanza e abitazione, iniziato il primo luglio del 1962 e ufficialmente inaugurato il 31 ottobre del ’66. Dopo la Guerar del Vietnam è stato battezzato Palazzo della Riunificazione. Il cuore della città bianca comprendeva anche, proprio a ridosso del parco del Palazzo del Governatore, il liceo francese Chasseloup-Labat (oggi Le Quay Don) frequentato, appunto, da Marguerite Duras. C’erano poi, e sono sopravvissuti, l’attuale Musée de la Révolution (del 1886) e il già Palais de Justice (del 1885), altre steli nella radura ridefinita dall’urbanistica coloniale. La città aveva inoltre potuto avvalersi del contributo dell’ingegner Eiffel, che aveva progettato l’Ospedale Gell. C’erano quindi fabbriche di tabacco e di oppio, a testimonianza delle quali resta oggi solo un’insegna in ferro battuto al 74 di via Hai Ba Trung, già rue Paul Blanchy. Pian pian anche la toponomastica venne rivoluzionata, e le vie iniziarono a portare i nomi dei funzionari e dei militari francesi (i toponimi vietnamiti riemergeranno solo dopo la Guerra). Di fatto, le steli architettoniche che andiamo descrivendo e la toponomastica delle strade finirono con il definire sfere diverse di città, alle quali la Duras fa esplicito riferimento in Un barrage… quando accenna a due o tre città nella città. La città bianca, con le sue aiuole ben tenute, la vegetazione rorida, con i locali alla moda, la rue Catinat e gli hotel de luxe; la città indigena, pattumiera della città bianca, e in mezzo agli estremi una fascia di , dei francesi che non avevano fatto fortuna e non vivevano i privilegi dell’élite coloniale. Per la Duras, in particolare, la geografia ristretta della appena nata città dei bianchi era limitata dalle Messaggerie Marittime con l’Hotel art-déco Majestic del 1925 (oggi è annesso il cabaret Maxime che è anche sala da gioco) e dalle parallele e perpendicolari di rue Catinat (oggi Dong Khoi, ovvero via dell’Insurrezione), che da lì saliva sino all’estremo nord verso la Cattedrale passando per il Municipio, l’Hotel Continental, il Teatro Municipale. E’ una spazialità racchiusa, con soglie definite, quasi antica concezione greca del cosmo come insieme finito e ordinato di elementi coappartenenti. Rue Catinat è la via degli incontri, del passeggio, dell’andare e tornare, è la strada nella sua accezione semantica più completa, universale, è anche la via della persuasione dell’erotismo. E una strada per la quale le parole di Hofmannsthal ben valgono a descriverla: . Rue Catinat (che prendeva il nome dalla fregata che forzò il porto di Danang, e che oggi si chiama Dong Khoi, ovvero dell’Insurrezione) era la via del lusso, del passeggio dei bainchi, ed era costeggiata di negozi di profumerie e pasticcerie, di ristoranti e alberghi, oggi in prate sostituiti dai negozietti di souvenir. La parallela, l’ex boulevard Charnier (oggi Nguyen Hué), si concludeva al Palazzo del Municipio (ora Comitato Popolare cittadino), un edificio eclettico completato nel 1908, la cui facciata è stata più volte intonacata. E’ un autentico pastiche architettonico, una carnevalata emblematica del glamour delle soirée anni Trenta della Saigon istituzionale. Alle sue spalle domina ora un più alto edificio moderno che cancella lo skyline storico della città, un po’ come accade tra la ex stazione ferroviaria e il grattacielo di Walter Gropius a New York. Lungo il viale, infatti, sono sorti negli ultimi anni alcuni grattacieli, soprattutto verso il porto, che si affiancano a superstiti edifici di impronta coloniale, come il restaurato albergo Palace. Sono gli emblemi del tentativo in atto di diventare una “tigre del Pacifico”. L’Hotel Continental è il luogo “mitico”, per la Duras, di Saigon. E’ quello dove sono ambientate pagine dell’Americano tranquillo di Graham Greene e quello da dove i corrispondenti dalla Guerra del Vietnam hanno versato fiumi di inchiostro. Il Continental fu costruito nel 1880 dai francesi e, sino agli anni Cinquanta, aveva una veranda con tavolini all’aperto che rappresentava il ritrovo della Saigon-bene. Al suo interno, nel cortiletto, si cenava sotto i frangipane. Oggi le sue camere sono conservate nell’originario arredo, ed è uno dei posti dove si respira ancora l’atosfera dell’Indocina di Greene e della Duras. Graham Greene scrisse qui Un americano tranquillo tra il ’52 e il ’54, durante il suo soggiorno a Saigon, iniziato nel gennaio del 1951 come corrispondente di . Quello di Greene doveva essere un breve soggiorno e, invece, iniziò da qui anche la sua collaborazione per e la sua esperienza di fumatore di oppio. Un americano tranquillo è farcito dall’esperienza personale dell’autore, e ambientato qui, dove abitavano il giornalista francese Renè Berval e la sua amante vietnamita, prototipi dei protagonisti Fowler e Phuong del romanzo. Il personaggio di Pyle, invece, fu suggerito da agenti della Cia che cercavano di dar vita a una mai nata “terza forza”, diversa da francesi e vietminh. Di fronte a questa mecca della letteratura e del giornalismo che è il Continental, sul luogo dove ora svetta il rinnovato Hotel Caravelle (dalla cui terrazza si ammira il panorama sulla città), negli anni della Duras sorgevano gli uffici della Suréte coloniale. Tra i due alberghi, nella piazza ora chiamata Lam Son, sorge il Teatro Municipale, al quale abbiamo già accennato, inaugurato nel 1900, altro esempio, ma più contenuto, di eclettismo architettonico alla francese. E’ prospiciente a via Le Loi, che porta al mercato Ben Thanh, il maggiore di Saigon, aperto nel 1914. Nella piazza della Cattedrale, piazza della Comune di Parigi, che negli anni Trenta si chiamava Place Pigneau de Behaine, si affaccia, oggi come allora, l’edificio delle Poste. Costruito tra il 1886 e il 1891, è dominato al suo interno – tra le colonne in ghisa di Gustav Eiffel sormontate da una foresta di ventilatori – da un gigantesco ritratto di Ho-Chi-Minh e da due vecchie mappe di Saigon alle pareti laterali. Le guglie neogotiche, il rosone, la facciata in mattoni rossi della Cattedrale di Nostre Dame o dell’Immacolata Concezione, consacrata nel 1880, furono fino a pochi anni fa i punti più alti della città e sono da sempre il fulcro di Saigon. Costruite dal 1877, svettano per una quarantina di metri: in immagini del 1880 appaiono non ancora ultimate. Qui venne celebrato, nel dicembre del ’42, il funerale del fratello della Duras e qui si tennero le veglie di preghiera durante la guerra del Vietnam. Ora lo skyline che disegnavano è alterato dal grattacielo dell’Hotel in ferro e vetro Diamond Plaza, alle spalle. L’interno non affascina nella sua freddezza, se si eccettua la cappella degli ex-voto con scritte in francese, vietnamita e cinese e qualche vetrata del Bourard. Dalla parte opposto del segmento coloniale di rue Catinat, ancora oggi i grossi cargo sbarcano sui marciapiedi delle Messaggerie Marittime, senza che ci sia più la folla ad attendere i piroscafi di linea dall’Europa come appare nei libri della Duras e come faceva la scrittrice stessa. L’hangar delle Messaggerie non è stato distrutto, ma è diventato il Museo Ho Chi Minh. Alle Messaggerie Marittime la giovane Donnadieu ci andava con il cinese a bere choum in una botteguccia sotto la trincea di frasche. Oggi le botteghe sono sostituite dai chioschi con le insegne della pubblicità globalizzata. A Saigon, la madre della Duras lavorò come pianista al cinema Eden. In due libri, Eden cinema e Un barrage…, la Duras fa più volte riferimento al cinema Eden, luogo di delizia della giovane. All’epoca, il grande cinema era situato in un passaggio presso il teatro Municipale. La giovane Donnadieu ci andava con il fratello Paul e con l’autista della madre, Thanh, come rivela in L’amante della Cina del Nord. Nelle prime file del cinema, infatti, sedevano di sera le meticce scappate dai dormitori del Lyautey. La madre aveva dovuto andare a lavorare all’Eden come pianista per arrotondare: . Oggi, la hall del cinema Eden è trasformata in un parcheggio di motociclette; all’interno si proiettano ancora film, prevalentemente pornografici taiwanesi. Restano, seppur distrutte, le sedie di cuoio di allora. E resta, con la stessa destinazione d’uso, l’istituto dove la Duras studiava ai tempi di L’amant. Il liceo le Lê Quý Dôn, l’ex liceo Chasseloup-Laubat, si trova immediatamente dietro il parco del Palazzo della Riunificazione. Il liceo Lê Quý Dôn non ha mutato l’aspetto del tempo coloniale: da sotto un porticato si entra in un grande cortile sui tre lati del quale sono distribuite al piano terreno le aule, alle quali si accede da sotto un porticato continuo. L’ala d’ingresso del liceo è su tre piani, e il resto su due. Al piano superiore una balconata immette nelle camere. Le ali del porticato finiscono con una torretta. Il sottotetto è in legno con mensole che sporgono alle torrette. Il Liceo è stato recentemente restaurato all’esterno in intonaco aragosta e persiane verdine. E’ in corso anche un ampliamento. Tutt’intorno, come nel resto della città, è un correre di motorini e biciclette in un frastuono reso ancor più caotico dalle botteghe dei venditori. Al liceo Chasseloup-Laubat Marguerite stava al primo banco, e iniziava le lezioni alle 7,30. Durante la pausa tornava alla pensione o alla casa. I bianchi erano una minoranza nel liceo. Le immagini del liceo che la scrittrice ci trasmette sono quelle di corridoi perennemente gremiti di studenti e di cortili. . E’, questo, il topos dell’ambiguità nella saga durassiana, il luogo dell’intreccio adolescenziale, da dove si fugge e dove ci si confessa, dove si apprende l’educazione civica e da dove si parte per rifuggirla, è il luogo della . Vi è, infine, l’altro luogo – legato al liceo - intorno al quale ruota l’esperienza sentimentale della Duras; il pensionato. E’ un luogo immaginario. , scrive in L’amant. Il liceo Chasseloup-Laubat non comportava, infatti, l’internato, e Marie Donnadieu aveva cercato un posto dove alloggiare la figlia. Il pensionato al quale la Duras si riferisce si chiama Lyautey. Del pensionato ricorre spesso l’immagine del cortile. Nel cortile del pensionato i ragazzi si ritrovavano a cantare e a giocare a carte. . E’ nel pensionato, nella parte più oscura di pensionato e liceo, che il pubblico e il privato, che il manifesto e il segreto della Duras s’intrecciano nella cornice delal città dei bianchi. La Duras offre anche immagini notturne del pensionato. . Nel dormitorio c’era una luce azzurrina, si bruciava l’incenso e si stava con le finestre spalancate. Si camminava scalzi e si dormiva sotto le zanzariere. Questo secondo la costruzione letteraria della Duras. Ma le tracce mancano, e i documenti dicono altro. . La Duras, come testimonia la Adler, andò probabilmente a vivere nella casa di con altri tre pensionanti: due docenti e una ragazza, Colette, di due anni più piccola. La Adler individua anche un passeggio tipico della Duras: ogni pomeriggio andava al giardino botanico con M.lle.C., ritratta sotto le sembianze di in Le boa. C’è una foto di quegli anni del giardino zoologico di Saigon: l’attrazione era l’esercizio dell’elefante. Abbiamo detto di Saigon come di una città che la Duras percepisce per steli, luoghi cardine di una geografia sentimentale e un po’ immaginaria. E in effetti i riferimenti alla Saigon coloniale si fermano a quelli qui descritti, se si eccettua un riferimento a una casa di Saigon, la casa di via Testard, dove in L’amant la scrittrice accenna d’essere sulla terrazza, come sempre di fronte a un parco. E’ così degno di nota rilevare l’assenza di riferimenti, nelle pagine durassiane, ai luoghi religiosi di Saigon. La Duras non frequenta pagode, non le cita mai. Sono l’estraneo. C’erano, ma non sono mai sullo sfondo della Indocina, la cui geografia urbana si ferma alla . Così non si accenna alla pagoda Giac Vien, nell’attuale distretto 11, un luogo caratteristico e pittoresco della città. Si dice che in questo luogo l’imperatore Gia Long, il primo della dinastia Nguyen, morto nel 1819, venisse qui a pregare. Né si parla espressamente della pagoda taoista dell’Imperatore di Giada, Ngoc Noang, che vuol dire oppure (che poi è la calotta celeste), secondo la metafora che si preferisce. E’ in via Mai Thi Luu, nel primo distretto, e fu eretta all’inizio del Novecento da una congregazione di monaci cantonesi. Ai tempi della Duras c’era, naturalmente, anche la più antica pagoda di Saigon, la Giac Lam, un po’ fuori mano, nel distretto di Tan Binh, otto chilometri fuori dal centro, una pagoda in stile vietnamita costruita nel 1744. Qui c’era una statua del Buddha del passato preceduto da una sfilata di vari altri Buddha e circondata dai discepoli che erano stati con lui nella foresta di Varanasi. Nella pagoda abitano una dozzina di bonzi. I vietnamiti si recano ancora qui a chiedere conforto per i loro cari, dei quali appendono il nome scritto su un foglietto su un albero stilizzato. Quando i francesi sventrarono la vecchia cittadella di Saigon risparmiarono, infine, il Tempio del generale Le Van Duyet, che era stato un loro collaborazionista. Ci pensò successivamente il figlio del generale, Minh Mang, a rovinare la tomba del padre . Infine l’imperatore Thieu Tri la fece restaurare. E così, negli anni Venti ed oggi ancora, in via Dinh Tien Hoang si possono vedere la stele funeraria del generale e la sala del culto. In via Dong Du, zona di Dong Khoi proliferante di locali notturni, nel 1935 venne inoltre costruita la Moschea bianca per soddisfare i musulmani, allora comunità fiorente che fa capolino nelle pieghe dei romanzi durassiani, e che ora è quasi scomparsa.


L’AMANTE DI CHOLON

Il quartiere cinese di Cholon, e tutto ciò che ha a che fare con Cholon - l’amante cinese, i locali notturni, le fumerie d’oppio - fanno parte di una sorta di , sono l’aspetto notturno, nascosto, erotico della personalità della Duras e della stessa città di Saigon. Cholon entra nella geografia durassiana a seguito dell’incontro tra l’adolescente Marguerite Duras e l’amante cinese, Leo, che ebbe luogo alla fine del 1929, non a Cholon, dove il cinese aveva una garçonnière, ma sul traghetto che portava la scrittrice da Sadec a Vinh Long o, ma questo solo letterariamente, nella mensa di Ram. Dalla ricostruzione narrativa di questi episodi, l’uno anche reale l’altro solo letterario, bisogna dunque partire per entrare nel cuore di Cholon. L’incontro con il cinese, che sia stato – come ha sostenuto la biografa Adler alla rivista - o meno, promosso dalla madre per bisogno di soldi, è dunque raccontato in una doppia versione: una, solo letteraria, raccontata nel primo romanzo , Un barrage…; l’altra, reale e letteraria, in L’amant. Siamo dunque di fronte a un caratteristico esempio di elaborazione ermeneutica. Nel Barrage, l’incontro con il cinese della Morris Léon Amédée Bollée nera da sette posti, un gioiello del lusso anni Venti, avviene nel cortile della mensa di Ram, dove Suzanne e il fratello videro l’auto saltando giù dalla loro Citroen B 12. . Da questa visione si dipanerà poi tutta la storia dell’amore platonico-voyageristico tra Suzanne e il cinese raccontata in Un barrage… che si dipana tra luoghi mai troppo circostanziati. Ben più folgorante la descrizione dell’incontro con l’amante nel secondo romanzo , L’amant. Qui, l’adolescente Marguerite tornava a Saigon dopo una visita alla madre a Sadec. Nel tratto tra Sadec e Vinh Long, l’adolescente scorge sul ponte del traghetto una limousine sulla quale viaggiava un giovane miliardario cinese: anche qui si tratta di una Morris Léon Amédée Bollée nera. La vista di quest’auto sul traghetto diventa l’immagine chiave di tutta l’opera durassiana; anzi l’opera letteraria è una infinita ermeneusi di questo incontro, di questo territorio naturale, sentimentale e della memoria: lei, l’auto con il cinese, il traghetto, il Mekong, la Pianura degli Uccelli, Saigon, Cholon... In L’amant la Duras dice di avere 15 anni e mezzo all’epoca dell’incontro, che sarebbe dunque avvenuto nel 1929; più tardi, in Yann Andréa Steiner, rettificherà scendendo a quattordici scarsi. . Dopo questo primo incontro, si sviluppa la relazione tra Marguerite e Leo, il cinese, che andrà a prenderla al pensionato, per portarla nella garçonnière di Cholon. Incontri che continueranno sino alla separazione a causa del matrimonio del cinese con la fidanzata stabilita dal padre. Una storia che durerà circa due anni. Il primo è quello in cui la Duras resta pensionata a Saigon: è quello dei viaggi nella Léon Bollée, delle cene e della a Cholon. Il secondo è quello in cui la madre lascia Sadec e viene trasferita a Saigon, andando a vivere in una casa non lontana dal liceo di Marguerite. E’ l’anno in cui i fratelli diventano sempre più aggressivi anche a causa dell’oppio e che sorvegliano la piccola e l’amante. E’ l’anno in cui lei passa le serate con il cinese alla Cascade, il locale notturno alla moda con piscina, che si trovava a quasi a 20 chilometri dal centro città, ed oggi è ormai integrata proprio come lo è il quartiere di Cholon. E’ qui, e in questo anno (presumibilmente il 1930) che i ragazzi Donnadieu venivano invitati a mangiare e ballare a spese del cinese. E’ questo il luogo che ispira accenni in L’amant e una pagina in Un barrage…. . In L’amant, la Duras chiama la sala da ballo La Source. E’ il locale notturno frequentato anche da Graham Greene. . Sono serate all’insegna del Martel Perrier e delle sbronze! Oggi, quel luogo di lusso ostentato e di alcove, non esiste più: anche lì c’è un mercato cinese diffuso, una radura malamente occupata che ha cancellato anche le steli . Non lontano da qui, doveva essere ubicata la garçonnière, forse con persiane azzurre che ricordavano la casa azzurra di Sadec del cinese, . Cholon, dunque, la città cinese satellite di Saigon, la città tenuta fuori dai bianchi e dai vietnamiti perché di immigrati, la città segregata, dei traffici loschi, il non-luogo per eccellenza, urbanistico e umano, diventa il luogo letterario dove si svolge la relazione tra la Duras e Leo. Quando il padre dell’amante cinese venne a conoscenza dellarelazioen, come liquidazione-riparazione fece in modo che a Marguerite arrivassero dei soldi, fatto questo più probabile, come registra la Adler, che il regalo di un diamante come narrato in Un barrage…. Con questi soldi, nell’estate del ’31, Marie Donnadieu e i suoi due ragazzi presero il piroscafo Bernardin de Saint Pierre con destinazione Marsiglia. La madre viaggiava gratis perché era un funzionario. Marguerite e la madre tornarono in Indocina l’anno successivo. Presero lo stesso piroscafo e sbarcarono a Saigon il 14 settembre 1932. Marie acquistò allora la casa in rue Testard, oggi rue Vo van Tan. Marguerite riprese di nuovo a studiare al Liceo Chasseloup-Laubat per il suo secondo baccalaureato. La madre ricominciò ad insegnare alle scuole comunali vicine all’arsenale. Leo, il cinese, era scomparso. Il definitivo ritorno in Francia, a Marsiglia, di madre e figlia avvenne il 28 ottobre del 1933. La Duras aveva quasi 20 anni: uno zio paterno del pensionante che avevano a Saigon, Max, l’accompagnò a Parigi. Quanto all’amante cinese - che secondo la testimonianza della Duras le avrebbe telefonato quando giunse a Parigi negli anni Ottanta -, è morto entro il 1990. Prima della morte, , altro nome di , era stato individuato e fotografato dalla rivista , come ha ricordato la stessa scrittrice. . Poi più nulla sino alla morte. , scrive nell’introduzione a L’amante della Cina del nord. . Il cinese è sepolto nel cimitero di Sadec. CHOLON Nel 1929-’30, ai tempi in cui è ambientata la vicenda sentimental-letteraria narrata in L’amant, Saigon e Cholon erano due città separate da una pianura dove, all’inizio della colonizzazione, i bianchi avevano scoperto un cimitero. Oggi il cimitero è scomparso sotto l’asfalto delle vie che collegano Cholon con il resto della città: viale Tran Phu e viale Tran Hung Dao. Saigon aveva nelle fumerie d’oppio e nei bordelli di Cholon la , il suo centro nascosto, regno incontrastato della comunità cinese. Un perimetro circoscritto ancora oggi, sebbene non come un tempo, quando Cholon era staccata. Chiassosa, sporca, un carnevale di colori, una babele di discorsi, un olezzo che storce lo stomaco, Cholon si snoda sostanzialmente lungo tre vie parallele: boulevard Hung Vuong, boulevard Nguven Trai e boulevard Tran Hung Dao. Era in queste vie che si trovava la garçonnière del cinese. Se rue Catinat era il volto elegante e coloniale di Saigon, Cholon era il ventre. Quella che oggi è una si sviluppò a partire dal Settecento, separata dalla cittadella di Saigon, e venne abitata dai cinesi della comunità hoa, una delle tante della diaspora cinese, che si divisero lungo le vie per congregazioni d’affari, un po’ come ai tempi delle signorie. I cantonesi si specializzarono nel commercio delle spezie, i Fujian nel riso e nell’importazione, i cinesi di Shaozhou nel commercio del pesce e nei trasporti. Gli hakka si dedicarono ai tessuti, quelli dell’isola di Hainan al commercio alimentare e ai ristoranti. E questa suddivisione si ritrova, per tracce, ancora oggi. Nei primi decenni del secolo, Cholon era il luogo dei traffici loschi, delle bische, delle fumerie d’oppio, dei bordelli dei locali notturni tenuti lontani dagli sguardi della Saigon bianca e monopolio di triadi cinesi che imponevano leggi spietate, come la setta Bin Xuyen del cosiddetto generale Le Van Vien, che controllava con i suoi uomini il casino Le Grand Monde, che diventerà approdo quotidiano nelle notti dell’Americano tranquillo di Greene e meta di scorribande con il cinese per la Duras. Un mondo, oggi, preda per lo più dei taiwanesi e dei cinesi di Hong Kong che gestiscono i karaoke, attrazione fatale dei giovani saigonesi. La garçonnière di Cholon era dalla parte opposta rispetto ai viali che collegano la città cinese con il centro di Saigon. La garçonnière era come , ammobiliato e in grado di attenuare il frastuono dei mercati all’esterno, quasi . . Poi l’intorno: . Dunque una città in scena. Ma le garçonnière e gli alberghi cinesi non erano i soli luoghi equivoci di Cholon. Gli altri erano le fumerie d’oppio del Mekong, i locali notturni, i bordelli. Cholon era anche un luogo religioso, ma la Duras non accenna mai alla presenza delle pagode. Qui le congregazioni cinesi avevano invece edificato ciascuna una propria pagoda taoista. La pagoda Nghia An Hoi Quan, o Tempio della pace attraverso la giustizia, al 678 della via Nguen Tra vicino all’albergo Arc-en-ciel, era stata fondata dai cinesi di Shaozhou. E sulla stessa strada, al 710, c’era la Thien Hau, fondata nel 1835 dai cantonesi. Foto d’epoca mostrano anche edifici coloniali già scomparsi e persino la ciminiera di una fabbrica. Ancora oggi si cammina a stento le vie di Cholon, soprattutto sull’interminabile viale Tran Hung Dao, che si conclude con la chiesa cattolica di Nhā Thô’ Cha Tam, o Phanxicô Xaviê (San Francesco Saverio) dove, nel novembre del 1963, fu assassinato dalla Cia l’ultimo presidente del Vietnam del Sud, Diem. Ai tempi della Duras, alla chiesa si giungeva da un vialetto alberato. Tutt’intorno è un dedalo di banchetti e di nere botteghe, di mercati ufficiali, come quello di Binh Tay all’aperto e di Han Dong al chiuso, e di un generale mercato diffuso. Spezie, tè profumati, ristoranti, botteghe, fumerie, giocatori di domino ci sono ancora, ma il fascino decadente della città cinese, della città segreta, perversa, dissoluta, di quella fetta di mondo dove tutto si poteva comprare contrattando è stato un cancellato dalla che anima i gironi infernali di una Cholon dantesca, soprattutto lungo Nguyen Trai. Non si vedono più nemmeno le ciminiere delle fabbriche che comparivano in alcune immagini degli anni Trenta: e l’archeologia industriale non interessa qui. Restano però tracce di quegli anni in diverse fatiscenti abitazioni, quasi tutte a due piani, con bottega a terra e magazzino-abitazione al primo. Sono morsicate dall’umidità, con marcapiani spezzati, timpani liberty frantumati, serrande malconcei balconi stipati di merci e di panni stesi e, naturalmente, fili della luce tirati alla meglio e in vista tra le parabole delle tv satellitari. Consueto status-symbol e testimonianza di appartenenza alla società globalizzata dei cittadini di questi Paesi. La strada urbana di Cholon, tuttavia, restano un palcoscenico dove ogni giorno la città si mostra e i cittadini vi recitano. Le vie sembrano quelle di una kashba per il totale frastuono dei motorini, l’incessante girovagare dei venditori che trasportano polli, tappeti, derrate, marchingegni domestici come sotto la spinta di una dantesca eterna condanna al movimento. Il colore è dato dalle tende strappate delle verande, dalle insegne e dall’esposizione dei prodotti, coriandoli di una gigantesca festa di carnevale. Ogni elemento architettonico e di , rappresenta lungo queste strade un valore di scambio o un elemento promozionale.


HO-CHI-MINH CITY

Un primo riscontro della Saigon della Duras può essere effettuato con quella di Graham Greene. Anche la Saigon dello scrittore americano, come quella della Duras, è in gran parte scomparsa. E, come sempre, la trasformazione si riflette sulla toponomastica. Il 104 di rue Catinat, dove alloggiava Greene, è scomparso per far spazio a un nuovo grattacielo che ospiterà un albergo. In rue Catinat gli alberi sono stati tagliati e il nome, come già detto, è cambiato: era duong Tu Do, via della Libertà, dopo la sconfitta dei francesi e la divisione del Paese nel 1954; è diventata duong Dong Khoi, via della Sollevazione generale, con la sconfitta degli americani e la riunificazione nel 1975. Graham Greene, come ricorda Lanfranco Vaccari in un reportage pubblicato dal Corriere della Sera, . Quando lui arrivò in Vietnam, il generale Giap stava lanciando l’offensiva nel Nord e tutti i ristoranti e i caffè erano protetti da lastre di ferro e riccioli di filo spinato, nel tentativo di scoraggiare il lancio di bombe a mano. E’ curioso notare come a Greene la storia tra il giornalista inglese (Thomas Fowler) e il rivale americano (Alden Pyle) “comincia a delinearsi nella testa di Greene all'inizio del febbraio 1952, quasi al termine della sua seconda visita (era arrivato negli ultimi giorni dell'ottobre precedente). Succede nel viaggio di ritorno a Saigon dopo un altro incontro nel delta con il colonnello Leroy. L'assatanato massacratore di comunisti di un anno prima, adesso, intrattiene il suo ospite su un battello che naviga il Mekong mentre il grammofono suona il tema del Terzo Uomo, un gruppo di ballerine si esibisce e viene servito cognac francese. Cita Proudhon, legge Montesquieu, discute di Pascal e del giansenismo. Vive in una villa costruita in mezzo a un lago artificiale, illuminata da neon che stanno accesi tutta la notte”. L’atmosfera poietica di “Un americano tranquillo”, dunque, è la stessa che porta alla nascita dei romanzi durassiani. E in tutto il romanzo del giornalista americano emergono temi durassiani: Fowler abita al 104 di rue Catinat, a metà strada fra l'Hotel Continental (dove si svolge parte della storia e come è presente in L’amant…) e il Majestic (dove Greene risiedette nella sua prima visita vietnamita). Phuong è l’amante vietnamita contesa fra Fowler e Pyle così come la stessa Duras è un’amante “vietnamita”. Phuong prepara a Fowler pipe d'oppio che Greene aveva fumato per la prima volta in un bordello di Cholon il 31 ottobre 1951 così come era solito fare il fratello maggiore della Duras. Oggi, a trent’anni dalla fine della Guerra del Vietnam - con la vittoria comunista del 30 aprile 1975 - e dal cambio del nome per cui Saigon è diventata Ho Chi Minh City, la città è stesa su una sorta di letto operatorio di una modernizzazione forzata sul modello di quella delle del Sud-est asiatico, come le città della Thailandia e della Malaysia. E la città plasmata dai francesi a immagine di ogni classica città coloniale viene via via cancellata, grazie anche agli americani, tornati qui in massa dopo il 3 febbraio '94, quando Clinton revocò l'embargo. Si ritiene che circa 400 aziende statunitensi abbiano cominciato a fare affari in Vietnam, Paese che, nel frattempo, è entrato nell'Asean, la comunità economica dell'Asia meridionale. Si calcola che sarebbero circa 1.500 gli americani volati in Vietnam per lavorare. Cambiano le facce, dunque e cambiano anche i luoghi di Saigon, locomotiva del Vietnam (un terzo del prodotto interno lordo ha origine qui). Vecchie case coloniali vengono cancellate da nuovi edifici. Mario Appelius, nei suoi vagabondaggi d'inizio secolo, annotava in Asia gialla: . Ora si replica, in grande. Gli hotel storici non sono più i crocevia di intrighi e avventure intellettuali come negli anni della dominazione francese o nel Dopoguerra. L'Hotel Continental, ad esempio: una reliquia, i giovani statunitensi rampanti preferiscono i bar in stile occidentale, illusorie isole newyorchesi ai tropici>. In una inchiesta per il , Marco Del Corona ha raccolto alcune testimonianze di questi giovani americani trapiantati nell’ex Saigon, che guadagnano tra i 30 e i 230 milioni di vecchie lire all'anno. <"Stiamo costruendo una città. Quanti sono i ventitreenni che possono dirlo?", si chiede Rachel, una che da Kansas City è entrato nella partita. Per i maschi, poi, il denaro rende quasi scontate relazioni con giovani vietnamite abbagliate dal desiderio di status-symbol come telefoni cellulari o moto Honda… Tra rock e neon, computer e dollari, Ho Chi Minh City sta subendo un trapianto d'anima. , dice Case, che ha vissuto a Tokio, Bangkok, Giakarta. L'oppio ha lasciato il posto alla psichedelia tecnologica>. E tende ad omologarsi a questi stereotipi anche Cholon, la città cinese ormai collegata alla nuova, ipertrofica Saigon che sta ingoiando una Saigon le cui memorie sono state in parte fissate dal regista Tranh Ahn Hung in Cyclo del '95. Due anni prima, il regista si era rivelato a Cannes con Il profumo della papaya verde, un delicato ritratto della Saigon che sta scomparendo. Alcuni aspetti, pur recenti, della cultura vietnamita vanno così cercati nei dintorni di Saigon, più che nella città. In particolare a Tay Ninh, non lontana dai tunnel di Cu Chi scavati durante la guerra con gli americani, che ospita la sede di una delle religioni indigene più interessanti: il caodaismo. Fu ufficialmente fondata nel 1926 dal mistico Ngo Minh Chieu e un anno dopo contava già 26mila adepti, tra i quali molti membri dell’amministrazione coloniale francese. E’ un sincretismo tra religioni orientali e occidentali celebrato in particolare attraverso sedute spiritiche nelle quali si comunica con le anime dei defunti. Negli anni Cinquanta i caodaisti cercarono di formare anche uno stato feudale intorno a Tay Ninh. Come scrisse Graham Greene per The Times, il caodaismo era una religione che sembravana nata , ma che si era ormai . Schierandosi con il Vietnam del Sud e contro i vietcong, i possedimenti dei caodaisti venenro sequestrati nel ’79 dal governo comunista. Né rientrarono poi in possesso verso la fine degli anni Ottanta. I principi fondamentali del caodaismo sono una sintesi tra buddhismo, taoismo e confucianesimo, il credo, sostanzialmente, in un unico Dio, l’esistenza dell’anima e un ricorso a medium per comunicare con l’aldilà. La sede del caodaismo, il Grande tempio a 4 chilometri a est di Tay Ninh, venne costruito nel 1926.


CONGEDO L’INDOCINA VISTA DA PARIGI

Sbarcata a Marsiglia dall’Indocina il 28 ottobre del 1933, la Duras, prima di stabilirsi a Parigi per frequentare l’università, trascorse . Dal ’35 Marguerite si trasferì al quartiere latino di Parigi, e iniziò una nuova vita al fianco di Robert Antelme, che diventerà suo marito il 23 settembre 1939. Abitava a due passi da place Saint-Germain-des-Près, in rue Saint-Benôit 5. Alla fine dell’autunno del ’41 rimane incinta. Ma il bambino nacque morto. Nel novembre del ’42 la Duras incontrò Dionys Mascolo, che diventò suo amante. . Anche a Parigi, l’Indocina continuò a rappresentare la terra materna, il vissuto indissolubilmente legato alla figura della madre, che dal dì là dell’Oceano le inviava soldi e sacchi di riso. L’Indocina amata, però, divenne sempre più la indocina, quella dei rac, del Mekong; quella del rapporto indissolubile con la madre e dell’odio verso il fratello maggiore. A Parigi, nel dicembre del 1942, arrivò alla Duras un telegramma dalla madre: . Paul era deceduto; morto di pleurite molto rapidamente. Il funerale venne celebrato nella cattedrale di Saigon, e Paul venne sepolto nel cimitero coloniale di Saigon. Intanto, durante l’occupazione nazista di Parigi, la Duras passò alla Resistenza con Francois Mitterand. Nel suo appartamento riceveva artisti ed intellettuali come Bataille, Claude Roy, Edgar Morin, Maurice Blanchot. Il 30 giugno 1947, Marguerite ebbe un figlio da Dionys Mascolo, che vivrà, comunque, con lei e Antelme nella casa di rue Saint Benôit. Con Mascolo il rapporto finì nel ’67. Poco dopo anche quello con Antelme. Furono, quelli, gli anni che la allontanarono dai temi coloniali e la indusserò ad iscriversi al P.C.F., che abbandonò nel 1956. Nel 1957, a più di 80 anni, la madre, Marie Donnadieu, morì lontano dall’amata Indocina, invocando il nome del fratello maggiore. I fratelli erano già morti; il più piccolo, Pierre, appunto, durante l’occupazione giapponese dell’Indocina e il maggiore, Paul, era stato trovato morto tre anni prima nella sua camera. Da allora, l’Indocina ricomparve a ripetizione nei libri e nei film della Duras. Nel ’59 nella sceneggiatura di Hiroshima, mon amour di Resnais, il punto più alto del rapporto tra la Duras e il cinema. L'anno prima il suo Un barrage… aveva ispirato Clément. Le tematiche coloniali ed esotiche ritornarono in La femme du Gange e ricomparvero nel ’77 quando, insieme a Michelle Porte, la Duras pubblicò un libro di testi e foto dal titolo Les lieux de Marguerite Duras. Infine esplose con L’amant nel 1984, proprio negli anni seguiti all’estate del 1980 quando, a Trouville, sulle adorate spiagge Normanne, la Duras aveva trovato l’ultimo della sua vita, Yann Andréa. Il romanzo diventa un fenomeno che nemmeno l’Accademia Goncourt ignora, tanto che la insignisce del premio letterario più famoso di Francia. Ma quando, nel 1992, Jean Jacques Annaud trae dal libro l’omonimo film, lei contesta il cineasta accusandolo di aver fatto solamente un film di cassetta, lontano dalle sue nostalgie per l’Indocina. E, quasi in risposta a ciò, pubblicò nel 1991 il romanzo-sceneggiatura L’amant de la Chine du Nord. La Duras pasas gli ultimi anni della sua vita nella casa Parigina, quasi senza uscire, nemmeno per recarsi all’eliseo, dove la invitò Francois Mitterand. La tormenta un enfisema polmonare e al telefono ha una voce roca e sottile. Le resta vicino solamente Yann Andréa, un giovane che le è totalmente devoto. Nel 1992 pubblica Yann Andréa Steiner il cui successo è effimero, anche se alcune pagine ricordano molto da vicino Il viceconsole, un altro libro della Duras.Alla fine del 1995, uscì, infine, C'est tout, un libriccino contro il quale la critica francese fu impietosa. Ma non si trattava di un racconto! Solo di struggenti brani di dialogo con Yann Andréa. Immagini fulminee attraverso le quali si scorge la morte che si avvicina. Dice l'autrice in un estremo sforzo di razionalità: "E’ difficile morire, a un certo momento t'accorgi che le cose della vita finiscono. E’ tutto". Quando morì, il 3 marzo del 1996 a 82 anni, i giornali scrissero che la scoperta della sensualità del fascino dell’Oriente segnò tutti i suoi romanzi. La Duras morì nella sua casa di Parigi “in silenzio accanto al suo ultimo, giovane compagno di vita, Yann Andréa. E’ morta a Parigi in una giornata grigia e malinconica. E’ morta come muoiono i vecchi, per stanchezza respiratoria. E' morta dopo aver attraversato e a suo modo riempito il XX secolo, dalle languide praterie dell' Indocina alla perenne festa mobile di Saint Germain des Prés. Marguerite Duras ha tolto il disturbo in punta di piedi, con eleganza. Marguerite, una grande scrittrice contemporanea. Non soltanto perché L' amante, premio Goncourt nel 1984, ha venduto quasi due milioni di copie. Non soltanto perché su di lei sono state scritte centinaia di tesi in tutte le università del mondo. Non soltanto perché dai suoi romanzi usciva spesso una musica incantatrice, una specie d'invisibile filo diretto con l'eternità. La verità è un’altra, forse più semplice: dopo il film Hiroshima, mon amour, Marguerite Duras è diventata un artista, il più imprevedibile artista del nostro tempo”. Due anni dopo la morte, nel 1998, uscì un libretto postumo, Il nero Atlantico, una sorta di paesaggio sentimentale ricostruito attraverso riflessioni, ricordi e spigolature, specie dell’infanzia, soprattutto della “madre, giovane maestra francese trasferitasi in Indocina, tenerissima e dura, come del resto richiedevano le condizionio abbastanza drammatiche della vita coloniale intorno agli anni Venti”. Riemerge, anche negli appunti estemporanei qui pubblicati, l’amore pazzo della madre per i figli, l’immagine di Marguerite, bambina magra e giallognola, che si rifiuta di mangiare cibi occidentali come carne, pane o mele e vuole solo riso, mango e carpe.

 
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