Intervista a Norman Foster |
Da: <Style>, mensile del <Corriere della Sera>, settembre 2006
NORMAN FOSTER Non è un architetto, ma un «archistar». È una stella del firmamento del disegno. È, oggi, quello che Bernini fu nella Roma di Urbano VIII e dei Barberini o quello che Inigo Jones fu nella Londra del Seicento: un intoccabile prestigiatore delle forme. Nulla è precluso a Norman Foster, baronetto di sua Maestà Elisabetta II, nel 1983 Medaglia d’Oro Reale per l’Architettura del Riba (Royal Institute of British Architects), nel 1991 Medaglia d’Oro dall’Accademia di Francia, nel 1994 Medaglia d’Oro dell’Aia (American Institute of Architects), nominato sir, poi lord, ventunesimo Pritzker Prize (il «Nobel» degli architetti) nel 1999. Foster è l’uomo che ha costruito il viadotto di Millau nel sud della Francia, che con i suoi 343 metri è il più alto mai realizzato, e che dallo studio d’architettura più grande del mondo dirige centinaia di progettisti. «Nell’ufficio lavorano 750 persone» racconta, «e siamo organizzati abbastanza bene perché sono parte di una grande squadra». Poco lontano da qui spiccano le sue due supposte-gioiello londinesi. La prima è il nuovo edificio del Comune, dal quale il sindaco Ken Livingstone vede l’acqua del Tamigi scorrere sotto la torre di Londra, dove l’efferato Riccardo III fece uccidere gli eredi al trono d’Inghilterra, come racconta William Shakespeare (un must della biblioteca di Foster). Passando sull’altro lato del fiume, attraversandolo sul suo Millennium Bridge, c’è il secondo gioiello: l’elegante, conica torre 36 St. Mary Axe. Chiamata amichevolmente «the Gherkin» (il cetriolino), non solo è riuscita a diventare un nuovo punto di riferimento per i londinesi, ma ha contribuito a ricucire il tessuto urbano. All’interno, l’edificio funziona come una comunità verticale, con giardini d’inverno uno sopra l’altro salendo a spirale verso la magnifica cupola vetrata, da cui si ammira tutta la città. Foster, nel vestire, sembra un lord del Settecento. Una eleganza che non si può che definire british. Niente fumo di Londra; anzi, spesso si fa vedere in velluto verde, con il dolcevita sotto la giacca in inverno, e sempre con il suo inseparabile computer. Lo usa per lanciare schermate di Powerpoint a ogni conferenza, dove si presenta in orario, preparato (con tanto di preliminari ispezioni dei suoi assistenti), professionale: nessun cedimento al pop, nessun tono da vecchi amici. A ciascuno la sua parte: a lui quella di delineare il ruolo delle città nel mondo globalizzato, quello con il buco nell’ozono, la crescita demografica, l’esplosione cinese, la densità urbana europea. Lui guarda dall’alto i problemi delle città e le città. Quando accettò l’incarico di costruire a Milano il nuovo insediamento di Santa Giulia, per prima cosa sorvolò la terra di Carlo Cattaneo in elicottero e disse: «Si può fare». Non che questo gli impedisca di comprendere le culture locali. Quando costruì l’edificio che più lo rese famoso nel mondo, la sede della Hong Kong and Shanghai Bank nel cuore del quartiere finanziario di Hong Kong, fu costretto a fare i conti con il feng-shui: se non si rispettano le regole di quest’antica filosofia che spiega come disporre e orientare gli spazi, non si può costruire per i superstiziosi cinesi. Il grattacielo, alto 180 metri, è una delle strutture tecnologicamente più avanzate in Asia e uno degli edifici più costosi dell’era moderna: 465 milioni di euro per i suoi 41 piani e i 100 mila metri quadrati di area. Questo palazzo l’ha fatto diventare il maestro dell’hi-tech, ovvero delle torri in ferro e vetro, ovvero di quell’architettura che si basa sulla sfida ingegneristica alla natura e ai suoi materiali. E che tiene conto dei problemi di illuminazione, ventilazione, risparmio energetico. Un’ architettura che ama costruire giardini d’inverno e appartamenti dove Qual è il luogo che ama di più su questa terra? La valle dell’Engadina, in Svizzera. A Sankt Moritz ho disegnato un condominio, il Chesa Futura. Mi è così piaciuto che mi sono comprato un appartamento che, come lo stabile fuori, è moderno, radicale, caldo, confortevole e «alpino», senza che nessuno di questi elementi entri in conflitto. Cosa fa, nel suo tempo libero, in Engadina o altrove? Sono un fanatico dello sci di fondo, una passione totalizzante in vacanza, che mi fa percorrere 700 chilometri ogni inverno. E non manco mai al via della maratona dell’Engadina a marzo. D’estate mi tengo in forma in bicicletta, su e giù per le strade delle montagne svizzere, con qualche digressione fuoristrada in mountain bike. Oltre a praticarlo, segue anche lo sport? Preferisco farlo. Ma mi godo anche lo spettacolo che offrono le grandi partite di calcio; mi è proprio piaciuto il Mondiale dell’Italia, sono diventato quasi un vostro tifoso. Quali sono le sue altre passioni? Il mio vero amore è l’aviazione. Adoro pilotare, se c’è una cloche non so resistere, non importa il mezzo: ho portato idrovolanti, aerei d’epoca, caccia da combattimento, executive jet ed elicotteri; passo 400 ore all’anno ai comandi. Vede qualche rapporto tra architettura e aviazione? Seguire un progetto è come pilotare un aereo: bisogna guardare alcuni degli strumenti per tutto il tempo e tutti gli strumenti ogni tanto. Gli strumenti sono i progetti e i loro siti. Ma la squadra è anche un network. Che fa quando non lavora? Faccio schizzi, disegno, scrivo e gioco. E poi? Sto con mia moglie e la mia famiglia. Ama i film e la letteratura? Leggo molto, degli argomenti più svariati; al momento ho sul comodino una biografia di Marc Isambard Brunel, un geniale ingegnere del diciottesimo secolo e 23 days in July, un libro su Lance Armstrong e la sua vittoria al Tour de France 2004. E l’arte? Sono un collezionista, ma un po’ distratto, di arte contemporanea e fotografia; recentemente ho commissionato due lavori a Richard Long e Sol LeWitt e ho acquistato un’opera di Jason Martin. Quanto allo stile di vita? Sono un uomo che ha molto appetito e molta impazienza. C’è un luogo, un’architettura, una città che amerebbe cancellare? I campi di concentramento, ma forse dobbiamo conservarli per cancellarli. E un suo progetto che vorrebbe distruggere? Quelli su cui lavoro, a un certo punto... e no, non ho desiderio di distruggere alcuno dei miei progetti passati. Nel mondo globale, l’architettura dovrebbe avere uno stile internazionale o locale ? Bisogna pensare globalmente e agire localmente. Ma il mondo è attraversato da grandi problemi, crescita demografica incontrollata, consumo delle risorse. In che modo l’architettura dovrebbe rispondere a espressioni come il Protocollo di Kyoto? Conservando e creando energia in modo pulito. Dovremmo usare risorse preziose come l’energia, l’acqua e la terra in maniera saggia. Non dobbiamo solo pensare all’architettura di edifici, ma anche alle infrastrutture intorno. Si può avere un ottimo stile di vita anche in edifici ecologicamente sensibili che possono conservare e raccogliere energia. Come è possibile costruire estensivamente e controllare il consumo di elettricità? Guardate l’esempio del «nostro» Reichstag di Berlino, il parlamento tedesco. È una centrale elettrica che soddisfa i propri bisogni, come pure quelli del quartiere di cui fa parte. Genera energia in modo pulito e con fonti completamente rinnovabili. Ma bisogna ricordare che sulla nuova cupola qualche problema è stato sollevato. Costruire nel verde ha ancora un senso strategico oggi? Sì. Il verde è necessario per l’uomo. Come si può risolvere il problema della mobilità nelle città? Realizzando mezzi pubblici realmente attraenti come pure riprogettando il concetto di automobile, rinnovando l’idea di vettura. La città del futuro dovrebbe vivere 24 ore al giorno o rispettare il corso giorno-notte? Alcune parti di città dovrebbero essere vive per 24 ore, altre dovrebbero rispettare il giorno e la notte: perché o l’uno o l’altro? L’ideale è poter scegliere! Nell’architettura del futuro gli stili cambieranno come quelli del prêt a porter? Non per me. Cina, Brasile, Russia stanno diventando capitali di un’architettura nuova, indifferente alle radici: c’è ancora lo spazio per la tradizione europea? Come un’influenza positiva, sì. Quale è il paese emergente per l’architettura? Tutti quelli con un’economia dinamica, in contrasto con quella delle nazioni più statiche. Dunque tutti i paesi in via di sviluppo, in movimento, primi fra tutti Cina e India. Lei sta costruendo un nuovo aeroporto in Cina, quali sono le differenze tra costruire in quel paese e in Europa? Lì pensano in grande, progettando in anticipo, agendo audacemente e rapidamente. A quali altri progetti sta lavorando? Più di quanti ne posso elencare... In effetti ce ne sono in Asia, negli Stati Uniti, in Europa e uno persino in Italia, a Milano. Qual è il più visionario in cantiere? La Moscow City Tower, un grattacielo triangolare di 600 metri che, grazie alla ventilazione naturale, risparmierà il 20 per cento di energia. Verrà anche raccolta l’acqua piovana da utilizzare, ad esempio, per il riscaldamento e gli scarichi dei bagni. Veniamo allora a quello di Milano. Milano Santa Giulia, progettato per Luigi Zunino, sarà un grande luogo dove vivere, lavorare e anche da visitare. Unisce la parte migliore della città e della campagna, ed è molto più elegante dei sobborghi di periferia. È meglio progettare in Italia o nei paesi stranieri? Ogni paese è speciale ma per me l’Italia è molto speciale. Condivide uno degli imperativi del Funzionalismo, progettare tutto, dal cucchiaio alla città? Certo e bisogna progettarli bene allo stesse modo. Nessun dettaglio è di poca importanza e perciò prodighiamo la stessa cura anche al disegno di un mobile, di un rubinetto. Sono tutti elementi, infatti, che contribuiscono a creare l’ambiente con cui veniamo in contatto ogni giorno della nostra vita. Che cosa le piacerebbe fare nella sua prossima vita? Ci sono troppe idee |
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