Menu Content/Inhalt

EU Prize for Cultural Heritage / Europa Nostra Award 2017

Il Progetto ‘Museo Piranesi’

di Pierluigi Panza

vince l’EU Prize for

Cultural Heritage

/ Europa Nostra Award 2017   




Introduzione PDF Stampa E-mail


DECOSTRUZIONE, INTERPRETAZIONE, CREAZIONE:
PIRANESI ALL’ORIGINE DELLA CONTEMPORANEITÀ

     
In materia d’arte, l’erudizione è una sconfitta: chiarisce ciò che non è affatto sottile, approfondisce ciò che non è affatto essenziale. Sostituisce la sua ipotesi alla sensazione, la sua prodigiosa memoria all’esistenza della meraviglia, e aggiunge al museo immenso una biblioteca illimitata. Venere trasformata in documento.           
Paul Valéry, «La gauloise», 4 aprile 1923


Nella nota introduttiva al catalogo che correda la traduzione italiana della monografia di Henry Focillon dedicata a Piranesi , Augusta Monferini richiama l’attenzione sulla singolare «frattura» che caratterizza la riflessione critica sull’artista veneziano. Da un lato, secondo la Monferini, si è prodotta una «letteratura puramente filologica e senza apparato critico», dall’altro una «letteratura critica senza supporto di informazione filologica» . Per quanto riguarda la prima, il riferimento è ai repertori di Giesecke e di Hind; nel secondo caso la Monferini allude, probabilmente, a saggi come quelli della Yourcenar, di Huxley e di storici come Keller e Poulet.
 Questo saggio, che partendo dai dati filologici muove verso una critica dialogica, ovvero una «comprensione creativa» del passato che non rinuncia al proprio sé, ma entra con la sua originalità nell’unitario processo del divenire della cultura, disvelando nuove possibilità di senso, si prefigge di saldare i due aspetti . Di saldarli, innanzitutto, per mettere in luce la fenomenologia della creazione artistica – e in particolare architettonica – di Piranesi, ricostruendone i processi e mostrandone i riferimenti sulla base di inediti documenti d’archivio e confronti testuali-iconografici con le fonti dell’autore, ma anche attualizzandone i contenuti sia per quanto riguarda i processi compositivi da lui seguiti sia per i risultati conseguiti.
 Per quanto riguarda questo secondo aspetto, la fenomenologia della creazione artistica piranesiana e i risultati ottenuti anticipano, forse per la prima volta, la contemporanea crisi dell’architettura come costructum caratterizzato da un arché e da un telos, come costructum che procede secondo un metodo alla definizione di uno spazio in vista di un fine. Piranesi, infatti, decostruisce l’impalcato della teoria architettonica instaurativa rinascimentale mettendone in crisi la semantica, la sintassi e l’organizzazione gerarchica secondo una logica di travisamento del «canone», senza porre in crisi il principio dell’autore. Il suo dichiarato anarchismo artistico mette inoltre in luce, come già evidenziato da Manfredo Tafuri, la dialettica tra storicismo e antistoricismo (aspetto tipico anche dell’architettura contemporanea) e l’esplodere del conflitto tra un’idea di architettura come Bildung e un’idea di organizzazione spaziale fondata sul principio dell’economicità, delle finalità etico-politiche, spersonalizzata e seriale (che è andata affermandosi). Nel tentativo, «reazionario» per i principi dell’Illuminismo lodoliano, di difendere l’autoralità e l’originalità dell’atto architettonico, l’opera piranesiana si configura come un momento critico nei confronti dell’«asservimento» dell’architettura alla razionalità, alla funzionalità e alla stilistica. Atto critico che si esplica con la tutela di un’architettura «signata» dall’autore e dal tempo, che in lui si attua principalmente attraverso la riappropriazione autografa dei lessici storici, la predilezione dell’espressività sull’imitazione e l’assenza di coappartenenza tra rappresentazione e rappresentato.
 Quello della difesa dell’autòs, ovvero dell’autorità, dell’autografia e dell’autonomia dell’autore di un’opera architettonica, di un autore la cui genialità creativa sta nell’inventare un proprio nòmos in piena autonomia, tra gli estremi coercitivi della imitatio e dello stile, è un tema centrale in Piranesi. Contro l’emergere della presa di coscienza dell’architettura come «arte» eteronoma, Piranesi pone a baluardo dell’ideale dell’architettura il termine medio della triade goethiana, ovvero quello della maniera, della poetica propria di ciascun artista. Né la «semplice imitazione della natura» o della «bella natura», né l’adeguamento a uno stile che, per Piranesi, non è elemento espressivo sintetico ma una grammatica codificata, potrebbero sottrarre al manifesto emergere dell’eteronomia il «santuario dell’architettura». Solo la «formatività compositiva dell’autore», che concepisce ed esegue secondo un irriproducibile processo, appare alternativa al dissolversi dell’evento architettonico nel tipico o nella riproposizione dell’archetipo. E la maniera, in Piranesi, agisce soprattutto come habitus, coltivazione di Kleidung e Bekleidung dell’architettura; e ciò indipendentemente, o meglio ancora in contrasto, con il principio settecentesco dell’appropriatezza, ovvero del rispecchiamento della morfologia spaziale al fine. L’«architettura parlante» di Piranesi agisce sul piano della decostruzione e della richiesta al fruitore di libera interpretazione dell’iconografia e non sul piano della retorica espressionistica alla Gabriel-Germain Boffrand.
 Questo saggio cerca dunque di mostrare come l’atto critico che si concretizza nell’intervento di risistemazione al priorato (ricostruito filologicamente sulla base del libro di cantiere, il manoscritto Libro dei conti), sintetizzi in parte le considerazioni sopra anticipate e possa essere letto come momento di sintesi a cui si proviene al termine dell’intero percorso di fenomenologia della creazione artistica che, in Piranesi, muove dai ritrovamenti archeologici (tavole delle Antichità romane), prosegue con la loro catalogazione e il loro studio (raccolta Vasi, candelabri, cippi), la reinterpretazione e il libero travisamento compositivo in chiave antistilistica (nelle Diverse maniere d’adornare i cammini), sino alla messa in opera su quel manifesto di pietra che è il complesso sull’Aventino. Manifesto sul quale Piranesi gioca un’alta scommessa: quella di riuscire a conservare autografia all’architettura mentre la si realizza per conto di una committenza.
 Il percorso di fenomenologia creativa piranesiana prende le mosse da una riflessione storico-teorica che s’inquadra nella polemica antirazionalistica e nell’esaltazione del primato vichiano del verum-factum. Il legame con Vico è reso evidente dal rapporto che Piranesi, al pari del filosofo napoletano, istituisce tra cultura di una civiltà e sua espressione artistica. Ciò appare chiaro nel Della Magnificenza ed Architettura de’ Romani del 1761, opera in cui Piranesi attualizza in chiave artistica i temi dello scontro tra le civiltà (con la messa in dubbio dell’origine greca dell’arte romana), già allora ricorrenti in una più generale riflessione filosofica (poi sintetizzata da Herder), più volte riemersi nel pensiero moderno (Spengler) e recentemente ritornati all’attenzione critica (Martin Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica) .
 Altro tema sviluppato in una prospettiva storica da Piranesi e rimasto d’attualità è quello del rapporto tra ornamento e sviluppo di una civiltà (Rousseau, Discorso sulle arti e sulle scienze); anche questa polemica ha caratterizzato la teoria artistica sino ai primi del Novecento (Loos, Parole nel vuoto). L’apprezzamento, che segue quello del Vico, per la tradizione etrusco-romana, la cui arte magnificente e spoglia è espressione di virtù e decoro e non presenta le degenerazioni ornamentali di quella greca, lega in chiave storica questi due temi. E, a proposito del tema dell’ornamento, è bene sgombrare subito il campo da una ricorrente critica. Il rovesciamento della valutazione sul tema dell’ornamento attuato nel Parere del ’65 non è da intendersi come aperta contraddizione con le tesi del Della Magnificenza. Come in Wotton, anche in Piranesi si distinguono due «metodi» per studiare l’architettura: quello storico (del Della Magnificenza) e quello logico (del Parere). Ovvero quello della narrazione, e pertanto del possibile «travisamento» delle fonti e quello logico, dello studio dei «principia», che è una sorta di storia naturale, ovvero una «scienza dell’architettura». A questi due atteggiamenti corrispondono rispettivamente i ruoli negativo e positivo attribuiti all’ornamento nello sviluppo delle arti.
 Agli stessi temi della virtus e della pietas si lega parzialmente anche lo sforzo di ricognizione e documentazione archeologica delle «ruine» romane, attività primaria di Piranesi, supporto di ogni riflessione storica e anello che lega la sua posizione all’estetica sensistica e del «sublime». La rovina ci mostra che se le opere nascono nella storia possono anche perire in essa. L’inalienabilità di ciò che sulla carta è segnato, come rilievo, come progetto, come restauro grafico e come documento di studio e testimonianza non garantisce l’inalienabilità dell’opera e neppure costituisce il suo «segno» autentico e definitivo. Anzi, l’acquisizione di senso di un’opera avviene in seno all’apertura che la temporalità le conferisce configurando nuove tracce.
 Ma se il cammino che segna in chiave storico-teorica il suo anarchico anticlassicismo prende avvio con le Antichità romane del ’56 e si perfeziona con il Della Magnificenza del ’61, che accompagna e inquadra l’accennato percorso di fenomenologia della creazione artistica, il cammino di decostruzione della semantica e sintassi spaziale era già stato intrapreso sin dal 1745 con le Carceri e proseguito con il Campo Marzio del 1762. In queste opere la dissoluzione dell’ordine spaziale arriva a esiti che annunciano la crisi di un’architettura fondata su principi razionali, funzionali e geometrici. La decostruzione a cui Piranesi sottopone lo spazio euclideo è analoga a quella a cui sottopone i lessici stilistici dell’antichità. In entrambi i casi sono messi in atto meccanismi di rottura (kenosis, nel linguaggio critico di Harold Bloom)  per sottrarsi all’«angoscia dell’influenza» esercitata dalla tradizione, movimenti verso la discontinuità e contrari alla coazione a ripetere; ma, mentre nel primo caso il progetto resta relegato ai fogli delle incisioni, nel secondo Piranesi ha avuto l’opportunità di mostrare le tappe dell’intero percorso decostruttivo, dal lavoro di ricerca e scavo sull’antico alla riproposta nell’intervento al priorato.
 La rivoluzionaria trasformazione dei principi del gusto attuata dall’estetica sensistica è l’orizzonte che consente a Piranesi di operare un travisamento dell’antico per liberarsi dall’angoscia per le radici e dar spazio a una rinnovata fenomenologia della creazione architettonica che consenta di «uscire dal vecchio e monotono stile». Di fronte alla dilagante passione per il passato , il collezionismo, il restauro e le connesse interpretazioni-travisamenti dei reperti diventano il mezzo per la manifestazione di sé e del proprio gusto: un gusto da antiquari, cioè da accumulatori, e non da archeologi, da ordinatori. Da questa dimensione muove Piranesi, reintegrando i reperti provenienti da Villa Adriana per i nobili inglesi, disegnandoli, redigendo un catalogo che serve come base e ricettacolo per comporre le eversive decorazioni dei camini e del priorato. In questo modo le antichità entrano fattivamente anche in un circuito economico; e mentre annunciano questo loro ingresso nel «mercato» mostrano l’equazione esistente tra gusto e potere. Ma, mentre i restauratori cercano di colmare lo iato tra le età passate e il presente attraverso autentiche dissimulazioni che ben manifestano la temperie culturale di metà Settecento (agli antipodi della concezione hegeliana del rapporto tra presente e storia) , Piranesi non dissimula: esibisce l’intangibilità del passato, ma non la possibilità di instaurare con esso un rapporto vitale. Rapporto che è possibile nella forma della comprensione dialogica e creativa, che si svolge dell’ambito della rappresentazione (Vorstellung) .
 Ne Le Antichità romane del ’56 Piranesi annuncia di voler tracciare una sorta di Wissenschaftliche Kunstgeschichte; ma non è, a nostro avviso, nei tentativi non a caso appena abbozzati di una oggettiva ricostruzione e documentazione archeologica del passato che va letto il contributo offerto dalle incisioni piranesiane; piuttosto nel tipico rapporto dell’antiquario che si consuma tra passione e osservazione del passato. Si tratta di un atteggiamento che sarà avversato dalla filologia «ufficiale», dalla storia degli stili, dall’attribuizionismo dal restauro tipologico e stilistico. L’esigenza dell’oggettività, o, meglio, del consenso interpersonale, prenderà il posto di una lettura dialogica del passato, frutto dell’esperienza di un’anima (di cui l’affascinante collezione di sir John Soane a Londra è un esempio), così come delle interpretazioni della storia dell’arte come storia delle civiltà (di cui è esempio il Della Magnificenza) e così come della reinvenzione creativa dell’antico.
 La raccolta Diverse maniere d’adornare i cammini del 1769 può considerarsi un esempio dello sviluppo a cui conduce questo atteggiamento nei confronti del passato. L’analisi iconografica mostra la trasformazione figurativa subita dalle fonti piranesiane costituite, in particolare, dai reperti da lui stesso rinvenuti e ridisegnati e da quelli raffigurati nei grandi repertori sulle antichità (come quelli di Montfauçon e Caylus) in chiave creativa. Piranesi opera per scarti, fraintendimenti («clinamen», nel linguaggio critico di Bloom), discontinuità con la fonte, metonimia, sineddoche, anafora, necessità di «varianza» sul tema. I frammenti dei reperti, messi così in opera, diventano un esempio di «memoria ritrovata».
 Ma, come già detto, il termine ultimo del percorso di fenomenologia della creazione artistica piranesiana, attuata attraverso la decostruzione del lessico antico, non si ferma ai «camini» e trova opportunità di esprimersi anche nell’intervento, ambiguo e dialettico, del priorato. Questo intervento risulta incomprensibile se sganciato dalla ricognizione dell’intera fenomenologia della creazione architettonica piranesiana, che si muove, come abbiamo annunciato, dal recupero e dalla ricomposizione e descrizione dei frammenti di un passato sentito – prima ancora che studiato –, passa attraverso una ricomposizione immaginativa di questi frammenti, per concludersi in una nuova e originale messa in opera in cantiere. È la messa in opera di un passato non mimetico, che si distingue come un nuovo segno sulla preesistenza, talvolta a discapito della traccia, che viene cancellata. La fabbrica preesistente diventa scenario sopra al quale apporre il proprio segno, che è quello del nuovo antico. Si tratta di un progetto carico di indeterminatezza, anche solo dal punto di vista iconografico, per la sovradeterminazione e la moltiplicazione dei riferimenti.
 L’insieme degli atteggiamenti qui descritti è di straordinaria contemporaneità. Anzi, in Piranesi troviamo l’annuncio di molti attuali dibattiti estetici e di tante soluzioni, aporie e sperimentazioni che si vanno compiendo sul corpo dell’architettura e nello spazio sociale della città. L’insieme della sua attività si presta come campo fecondo di letture estetiche: si pensi solo all’importanza che in Piranesi assume il rapporto tra passioni, desideri e opera d’arte o all’uso emblematico che fa dei decostruiti archetipi, al gusto per lo sperimentalismo e al bricolage che, dal tardo barocco, lancia un ideale ponte di comunicazione con la modernità delle avanguardie. Ma si pensi, anche, a come le incisioni piranesiane si siano dimostrate un fecondo esempio della gadameriana «apertura di senso» dell’opera d’arte nella loro capacità di generare nuovi orizzonti creativi, rimettendo in atto i processi della memoria, dell’immaginazione e delle passioni individuali. Si pensi, per accennare solo ad alcuni esempi, alla straordinaria fortuna critica delle tavole di Piranesi presso i romantici e i decadenti, da De Quincy a Hugo e Baudelaire. Si pensi, anche, a quello che è forse l’ultimo episodio della gemmazione ispirata dalle incisioni piranesiane: le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar . Se si tiene conto, in parallelo, dei legami che queste stesse tavole intrattengono con le loro fonti, si comprende immediatamente quale sovrabbondante moltiplicazione di materia sia a disposizione per gli studi di estetica della ricezione.
  Un aspetto che lega invece l’opera di Piranesi a temi oggi dibattuti dall’estetica fenomenologica è quello della comprensione dell’architettura non solo come arte dello spazio, ma anche come arte del tempo. Dopo tre secoli di trattatistica «instaurativa», da Alberti a Lodoli, «quel pazzo di Piranesi» si è assunto l’onere di mostrare il destino delle architetture e delle città nelle Vedute e nelle innumerevoli incisioni di rovine. Prima del «Die Ruine» di Simmel, Piranesi rivela la perenne lotta in atto nell’architettura tra «la volontà dello spirito e la necessità della natura» . Lotta che non solo le rovine piranesiane esemplificano, ma che la proposta alla quale l’autore approda dal 1765 acuisce, dilatando lo iato tra la volontà di imprimere un segno autografo e un’idea tradizionale di architettura come pura determinazione degli spazi con firmitas e utilitas.
 Il tema della rovina può accomunare l’atteggiamento piranesiano a quello di un certo nichilismo contemporaneo . È espressione di un piacere epocalmente segnato che non designa tanto una volontà di ritorno al passato quanto una presa di distanza critica verso il moderno e le sue «trappole», che vengono denunciate anche attraverso la presenza del passato. Ma, mentre oggi questa presenza segna un tratto ineludibile della modernità, il risvolto che Piranesi conferisce a questa presenza è anche quello di una via di fuga operativa alla spersonalizzazione del fenomeno artistico. Di fronte a una progettazione che cancella l’impronta individuale, Piranesi intravede nell’intervento sull’antico il luogo ideale dove questa può continuare ad agire, aggiungendo nuovi segni su un palinsesto stratificato. È questo il senso dell’intervento al priorato, dove Piranesi sostituisce e ricompone, ma lavora anche nelle intercapedini, nei recessi. Il cantiere di restauro diventa così non il luogo dove l’architetto si spersonalizza, ma quello in cui, paradossalmente, gli è possibile lasciare il segno, proprio perché lavora su un tessuto non anonimo.
 E proprio a partire da questa disperata esigenza di esprimere una propria autografia che ci si può muovere verso un’ulteriore attualizzazione critica dell’opera piranesiana, innescando il confronto tra essa e le ultime tendenze architettoniche. Elenchiamo, a questo proposito, alcune parole-chiave dell’estetica postmoderna e decostruttiva, che ben esprimono alcune caratteristiche dell’architettura contemporanea: gioco, caso, retorica, paratassi, metonimia, combinazione, rizoma-superficie, idioletto, bricolage, polimorfia, ironia ecc.  Ebbene, tutti questi termini, e in particolare il processo collage-montaggio, servono a spiegare le scelte e il metodo compositivo di Piranesi. Certo, sono diversi alcuni presupposti ed esiti delle ricerche, ma il tentativo di salvaguardare la Bildung architettonica partendo dalla ricomposizione idiolettica dei lacerti del passato, compiuto con esiti diversi dall’architettura postmoderna, appare già sperimentato da Piranesi. Anche la dissoluzione semantica e sintattica degli spazi, in cui, almeno dal 1988, l’architettura decostruttivista si è riconosciuta, era già stata annunciata nelle Carceri e ne Il Campo Marzio. Siamo di fronte, in entrambi i casi, a una ribellione all’architettura «illuministica» e al preconizzato affermarsi di razionalismo e funzionalismo, che hanno espropriato l’ars aedificandi non tanto e non solo della venustas, ma dell’«autorità» dell’autore, dell’unicità e singolarità dell’opera (termini che ne determinano storicamente l’originalità), spersonalizzandola, rendendola anonima e meno riconoscibile come «luogo».
 Di contro, gli strali di Piranesi sono rivolti al funzionalismo e alla logica galileiana di Lodoli, alla riduzione teorica dell’architettura all’archetipo laugeriano della capanna, oltre che, naturalmente, all’imporsi di un solo stile, quello greco, come modello per la creazione artistica. Ma essi lanciano anche una ideale critica alle «elucubrazioni antiumanistiche dello strutturalismo internazionale, alle teorie dell’autonomia del testo, all’architettura pura, che nel tradursi in realtà costruita formarono» come scrive Pierluigi Nicolin «lo scenario di un’insensata organizzazione totalitaria della vita» .
 Abbandonato il principio della libertà interpretativa e creativa, ridotta a coazione a ripetere, inserita nell’ordine economico, l’architettura, anziché liberare l’individuo nel suo spazio sociale è andata delineandosi come «istituzione totale» (di cui il panottico descritto da Foucault è il manifesto per razionalità e funzionalità) che ha accompagnato la «morte dell’uomo» .
 Ma se da un lato la rivolta dello «scellerato» Piranesi appare comprensibile in una stagione agli albori del moderno e in diretta tradizione con il barocco, il ripresentarsi, per i due secoli successivi, di questa dialettica, mostra il disagio irrisolto in cui si batte la disciplina, in una difesa che si annuncia patetica – ma di forte valenza critica – all’interno di una società in cui l’Illuminismo ha già mostrato la potenza del suo volto barbarico. Mentre da un lato i difensori dell’arte auratica pretenderebbero di rinsaldare il legame dell’opera con il mana , facendo degli artisti i nuovi sciamani e dei critici gli esegeti depositari di una relazione con il sacro, dall’altro l’iniziale liberazione dalla forze della natura e del sacro che ha contraddistinto la prima fase della modernità ha finito per espropriare l’individuo di una delle sue più tradizionali intenzionalità: quella progettuale . Non perché la modernità rifiuti una prospettiva progettuale, anzi; tende però a isolarla quando si presenta al di fuori delle regole dell’oggettivizzazione, dell’economicità, della funzionalità e, in definitiva, dell’assoggettamento dell’individuo.
 Quello di Piranesi è anche un esempio di «fine dei grandi racconti» dell’architettura, in questo caso del Barocco. Mentre in chiave storica Piranesi si affanna nel costruire una propria genealogia, nei progetti la decostruisce, la presenta per «micrologie», tracce deformate.
 In definitiva, Piranesi mostra la svolta a cui l’Illuminismo mette di fronte l’architettura, che è quella del suo congedo dai sistemi delle arti. Come semplifica nel Parere, o l’architettura si perpetua in «forme sempre nuove» come atto critico dell’artista oppure si riduce a «un vil mestiere da muratore», assoggettandosi ai principi dell’economicità e della funzionalità, costringendosi alla coazione a ripetere. Dall’altro lato, per Lodoli e Laugier il dato della ripetitività è addirittura implicito nell’architettura in tutte le sue espressioni, e deriva dai suoi principi riducibili a un unico modello metodologico (la scienza delle costruzioni) o generativo (l’archetipo della capanna primitiva).
 Con Piranesi siamo dunque ai prodromi della crisi dell’architettura moderna, che da allora si è dibattuta tra una costante e risorgente stagione della reinterpretazione revivalistica (che ha di volta in volta assunto nuove accezioni) e il tentativo di dar corso al progetto lodoliano di sottomettere la composizione al principio strutturale e funzionale, inteso in un senso via via più ampio che è andato comprendendo esigenze sociali, tecnologiche ecc. Senza tuttavia giungere, in questo secondo caso, alle estreme conseguenze: l’espropriazione dell’architettura del suo carattere di opera, la sua riduzione a cosa (dove questo carattere di cosa non è «la materia di cui l’opera consiste» , ma proprio la sottrazione all’opera della sua prerogativa di storicizzare la verità, cioè di essere disvelamento, «apertura di senso»).
 Ciò, tuttavia, pone di fronte ad altri interrogativi: è questa una difesa autorale o il tentativo di mantenere un legame tra architettura e arte perché questa rimanda a quell’idea di sacro dal quale la civiltà fatica ad affrancarsi? Non è detto infatti, e Benjamin lo ha mostrato, che la verità debba storicizzarsi nell’opera come autentica, irripetibile. Nel passaggio da opera a cosa, infatti, l’opera attuerebbe quel passaggio dalla sfera intuitivo-spirituale a quella politica, liberandosi definitivamente dalla ritualità e dalla magia da cui ha avuto origine per approdare nel vasto campo di nuove forme di storicizzazione del senso . Il tentativo, invece, di rimettere ogni volta in gioco l’architettura attraverso un progetto, il sempre rinnovato tentativo dell’arte di mettere «la verità in figura» potrebbe non essere altro che rimemorazione delle origini.
 Ma anche questa rimemorazione, quando pure rimette in gioco i fondamenti della sintassi e della semantica architettonica attraverso la dissoluzione della geometria, il travisamento della storia, il gioco di scarti o, come nel caso di Piranesi, la ricomposizione creativa dei lacerti dell’antichità, impone la consapevolezza di riconoscere che questi atteggiamenti non permetteranno da soli di «uscire dal labirinto che essi obbligano a percorrere» . È infatti il loro determinarsi come luoghi nel tempo che li rende autentici «frammenti» sui quali puntellare «le nostre rovine», ovvero li rende manifesti dell’esperienza umana che li attraversa. Solo così diventano luoghi «coltivati» del «dimoramento». E proprio un aspetto particolare di questo «attraversamento», la reductio ad naturam dell’architettura di cui Simmel mostra l’intera fenomenologia, è un altro piano, come detto, su cui si svolge l’azione piranesiana: le sue incisioni mostrano che l’antichità in frantumi non è ripresentabile, si è fatta unica; ma nel suo essere diventata «materia signata» dal tempo e nel tempo disvela effettualmente la verità, mette in opera la verità. Nel farsi corpo temporale, l’architettura recupera quei valori di unicità smarriti nel passaggio da opera a cosa. Pensare l’architettura e la città, così come l’arte in genere, attraverso i diversi strumenti – dal trattato al manifesto – è sempre stato sinonimo di pensare l’instaurarsi di nuove ragioni e nuovi metodi compositivi per una palingenesi artistica e urbana. Eppure, proprio l’idea di secolarizzazione e dell’essere nella storia che caratterizza la modernità avrebbe dovuto con urgenza spingere la coscienza critica a interrogarsi sulla fenomenologia dell’architettura come luogo dell’esperienza, dei vissuti e, soprattutto, come sede privilegiata del manifestarsi della temporalità. Piranesi è tra i primi a interrogarsi sulla trasformazione e sulla fine delle città più che sul loro instaurarsi. Si tratta allora di intendere le architetture, come sostenuto dalla fenomenologia husserliana, non più come semplici articolazioni di spazi, ma come corpi temporali costituiti di materia dotata di senso e intenzionata.
 Piranesi, certo, non poteva intuire tutti gli esiti a cui una lettura dialogica e uno sforzo di comprensione creativa della sua opera potevano portare. Aveva colto, tuttavia, il paradigma del loro sviluppo: quello della possibile ripetibilità della cosa-architettura e della conseguente perdita di autografia. E vi si era opposto. Opposto in quella che già allora si annunciava come la dimensione in grado di contrastare lo scenario che si andava delineando: quella di una rivendicazione umanistica contro la dissoluzione dell’uomo e della sua capacità creativa, che avrebbe poi assunto i connotati di «morte dell’uomo».
 Prima del fallimento dei progetti di rischiaramento ed emancipazione della società, prima della messa in crisi dell’equazione istituita tra reale e razionale a sostegno del progetto del moderno, Piranesi aveva mostrato come da presupposti di esautorazione della verità storica e da un confronto rammemorativo-interpretativo con il passato potesse svilupparsi un’arte libera e pietosa verso quello stesso passato. In quell’arte era già in nuce l’abrogazione dell’egemonia attribuita alla geometria euclidea, la scomparsa del legame che unisce progetto architettonico e idea di una progressiva emancipazione sociale. E da questi presupposti aveva fatto spazio al bricolage, alla citazione travisata, alla frammentazione, alla cannibalizzazione della forma. Aveva fatto spazio alla sovrapposizione di mondi artistici «ontologicamente diversi», a un pluralismo eclettico delle forme iconografiche e della loro nuova palingenesi, anche se ciò a prezzo dell’abbandono di una cultura costruttiva a favore di una moda per la rappresentazione e di sincretismi allucinatori.
 Le poetiche postmoderne e decostruttiviste trovano nella «maniera» piranesiana lo specchio che ne aveva anticipato i contenuti: il primato della retorica sulla logica, il gioco, la «differenza estetica», la messa in opera dello spettacolo architettonico.

 
Pros. >